Ci fosse solo lo scontro fra Bersani e Renzi il Pd potrebbe stare tranquillo. Il problema è che accanto e sotto il conflitto principale si agitano acque più inquiete e inquietanti. Tutte alludono al tema di fondo, sempre lo stesso, che è quello della caratteristica fondante del Pd, della sua vera natura. In questo il Pd è una specie di sottoprodotto del ’68. Malgrado le sue ragguardevoli dimensioni elettorali, tuttavia distanti dalla vocazione maggioritaria, il Pd assomiglia ai gruppi che distrussero il “movimento” impegnati com’erano per tutto il tempo a loro disposizione, che non fu lungo, a discettare sulla propria natura. Intanto il paese andava da tutt’altra parte.
Ecco perché lo scontro Bersani-Renzi diventa non un confronto serrato di linea (una più socialdemocratica l’altra più liberal), ma allude a due partiti inconciliabili fra di loro. Ecco perché lo scandalo alla regione Lazio e la tegola sulla testa di Penati fanno pensare a un partito che non ha visto la corruzione, né la propria né quella altrui. Ecco perché un fenomeno di successo come il dilagare del sindaco di Firenze è visto non come una risorsa improvvisa per fare irruzione nel campo avverso ma come lo snaturamento della propria identità. Ecco perché l’intero vecchio gruppo dirigente dimentica antiche rivalità e si presenta compatto contro i giovani, fiorentini o “turchi”. Ecco perché i nuovi gauchisti che siedono nella segreteria di Bersani dichiarano che saranno leali all’eventuale Renzi vincitore perché hanno in mente una specie di sottoprodotto del Midas, dal nome del grande albergo romano che ospitò la prima rivoluzione craxiana. Ecco perché il Pd non cresce nei sondaggi.
Il vecchio Alfredo Reichlin scrive che questo partito è il più sintonizzato sulla lunghezza d’onda della modernità ma è costretto a dichiarare che manca di classe dirigente. E di questo non si parlerà fra qualche giorno, il 6 ottobre, quando si riunirà la mitica assemblea nazionale. Si sentirà parlare di regole per le primarie, con questo vizio italiano di scrivere le regole a ridosso del voto, cosa che accomuna la destra e la sinistra. E si parlerà del fantasma dell’uomo che ha salvato l’Italia anche grazie al generoso appoggio della sinistra e che oggi si vuole regalare a quei due sbandati, lo dico politicamente, di Fini e Casini accompagnati dal titubante Luca di Montezemolo e con il rischio che lo appoggi anche quel Berlusconi che vede sfarinarsi il suo partito fra la propria indecisione e la voglia di saltare il fosso di tante sue creature.
È questo Pd che dovrebbe prendere in mano le sorti del paese. Che dovrebbe candidare un suo uomo alla guida dell’Italia. Che dovrebbe nutrire l’agenda Monti di contenuti sociali. Che dovrebbe sperimentare la coesistenza fra governo nazionale e autorità europea che oggi si manifesta come tecnostruttura ma lascia intravvedere il profilarsi di uno Stato europeo.
In questo Pd insorge una corrente neoliberista che va da Renzi ai veltroniani proprio nel momento in cui le due più grandi imprese italiane, la Fiat e il siderurgico di Taranto, chiedono soldi allo stato, nel primo caso lo fa Marchionne nel secondo lo fa Landini, e si aggrava la condizione di milioni di lavoratori il cui destino rischia di dipendere solo dalla cassa integrazione e da altri sussidi. A questo punto ci vorrebbe il progetto, l’idea, quella roba che ha consegnato alla storia figure come Di Vittorio e Giorgio Amendola.
Invece a questo punto dobbiamo fare il censimento di quelli che stanno con Renzi, che vuole un partito meno di sinistra, e quelli che stanno con Bersani, che lo vuole più socialista ma si fa sbattere fuori dalla segreteria del Pse. Vanno così le cose in Italia. Ci vorrebbe un Big bang, un Grande cambio. Renzi lo vuole generazionale. Bersani lo vuole tranquillo. Hanno ragione tutti e due, ma i problemi sembrano più grandi dei loro mezzi.