«Ma chi gliel’ha fatto fare?». Tra i deputati Pd presenti a Montecitorio la domanda è ricorrente. Nicola Zingaretti abbandona la candidatura al Campidoglio per puntare alla presidenza della Regione Lazio. «È un trappolone» si avventura qualcuno. Davanti a tanto stupore sembra quasi che il Partito democratico abbia deciso di sacrificare il numero uno della Provincia. E dire che nel partito molti lo considerano il miglior dirigente democrat a Roma e dintorni. Giovane, una carriera brillante, bravo amministratore locale. Ma tutt’altro che critico nei confronti dell’apparato di partito. Insomma, il perfetto anti-Renzi.
E invece mentre il sindaco di Firenze sfiderà Bersani – a scanso di sorprese – alle primarie per la premiership, Zingaretti dovrà cercare di raccogliere il poco invidiabile testimone di Renata Polverini. In linea teorica il trasferimento dalla Provincia alla Regione è un passo in avanti. Eppure la sua nomina assomiglia tanto a una fregatura. Fino a pochi giorni fa il partito considerava Zingaretti l’uomo adatto per riconquistare la Capitale dopo cinque anni di governo Alemanno. E lui ci aveva fatto la bocca. Alla sfida per il Capidoglio si preparava da tempo, tanto da aver già pubblicamente annunciato la sua decisione di candidarsi. Gli hanno sbarrato la strada all’ultimo. Ora dovrà correre per la Regione, con il vero obiettivo di salvare il centrosinistra da una catastrofe. «Perché lo scandalo della Pisana è stato sottovalutato da molti – raccontano nel Pd – e il rischio è che possa trascinare tutti via».
«C’è un’emergenza democratica» si è giustificato ieri il segretario regionale Enrico Gasbarra. La stessa cosa ha ripetuto oggi Zingaretti nella conferenza stampa convocata per annunciare la sua candidatura. Una candidatura proposta dal partito, quasi imposta. Ci aveva pensato proprio Gasbarra a bruciare sul tempo il presidente della Provincia, anticipando il suo nome prima ancora che il diretto interessato avesse accettato l’incarico. Un pressing di 72 ore, concluso con l’ovazione della direzione regionale Pd di ieri. Mentre il fratello del commissario Montalbano aveva chiesto ancora un po’ di tempo per riflettere. E così alla fine Zingaretti è stato costretto ad accettare. Nessuna sfida ad Alemanno, nessuna corsa al Campidoglio. E, forse, fine del sogno di scalare la segreteria Pd.
Non sfugge a nessuno, neppure allo staff di Zingaretti, che i precedenti alla Regione sono drammatici. Anche solo a livello simbolico. Fare il governatore del Lazio equivale a una condanna morte, politicamente parlando. Alla Pisana si chiudono carriere politiche. Chi si ricorda Piero Badaloni? Il governatore di centrosinistra dopo aver guidato la Regione tentò senza successo il bis. Sconfitto da Francesco Storace smise addirittura di fare politica. La storia di Piero Marrazzo è nota. E Renata Polverini? Probabilmente neppure i manifesti in cui ha recentemente celebrato le proprie dimissioni riusciranno a rilanciarla a grandi livelli.
Per carità, Zingaretti crede al miracolo. Ha accettato la decisione del partito con responsabilità. «Sarà la battaglia più dura della mia vita» ha spiegato in conferenza stampa. Il presidente della Provincia ha chiesto carta bianca. «Rivolterà la Regione come un calzino». A fare le spese della rivoluzione saranno, primi tra tutti, i consiglieri Pd. Probabilmente costretti a rinunciare alla ricandidatura in nome del profondo ricambio morale. La sfida è quasi impossibile: ridare credibilità e fiducia a un’istituzione ridotta ai minimi termini dagli scandali sui fondi pubblici.
Tanto per cominciare, però, l’elezione di Zingaretti non è così scontata. Prima il candidato dovrà superare l’ostacolo – non irresistibile – delle primarie. Poi dovrà confrontarsi con gli avversari. Il primo nemico sarà il Movimento Cinque Stelle. Dopo le imbarazzanti vicende degli ultimi mesi è facile immaginare che nel Lazio il voto di protesta raggiungerà livelli mai visti prima. E poi c’è il centrodestra. In campagna elettorale non saranno risparmiati attacchi durissimi. Il primo assaggio già in queste ore. La decisione di abbandonare la corsa al Campidoglio è già stata dipinta da tanti esponenti del Pdl come una fuga. Un segnale di paura. Anche per questo qualche ora fa Zingaretti si è affrettato a chiarire: «Ai cittadini romani dico aiutatemi, perché non scappo, non vado via, anzi, vado in un luogo dove sarà molto più difficile innovare». Ma anche i suoi collaboratori sono consapevoli che la novità gli farà perdere diversi voti. «Per molti romani sarà una grande delusione».
Curiosamente già due anni fa i dirigenti Pd avevano provato a spedire Zingaretti alla Regione. Senza successo. Dopo il caso Marrazzo e le dimissioni dell’allora governatore, il Partito democratico aveva provato a convincere il presidente della Provincia a prendere il suo posto. Anche allora si ricorda un lungo pressing. In quell’occasione, però, Zingaretti era riuscito a farsi da parte. Era stato eletto in Provincia solo due anni prima, spiegò al partito di non poter lasciare il lavoro a metà.
Questa volta – a sei mesi dal termine del mandato – Zingaretti non può rifiutare. Anche se il trasferimento in Regione rischia di segnare la sua carriera politica. Dire di no al Campidoglio significa rinunciare al palcoscenico nazionale. Non è un caso se gli ultimi due sindaci di centrosinistra, Francesco Rutelli e Walter Veltroni, si sono candidati a presidente del Consiglio subito dopo l’esperienza da primi cittadini. L’aula Giulio Cesare darà anche meno potere, ma la visibilità che regala la Città Eterna non ha pari a livello di enti locali. Se lo ricorda anche Jean Leonard Touadi, assessore alla sicurezza durante l’ultima esperienza Veltroni. «L’attenzione mediatica che avevo in quel ruolo – ricorda – non ce l’avevano neppure tanti sottosegretari al governo».
Zingaretti dovrà abituarsi. Chi lo conosce bene non si è stupito della sua disponibilità: ha accettato una candidatura di «servizio», spiegano oggi in molti, con grande generosità. Avrebbe potuto puntare i piedi, non lo ha fatto. In passato è stato più volte avvicinato alla segreteria del Partito. Un politico anomalo. Ex Ds, non ha mai amato i giochi di corrente («Attorno a me non voglio gente fedele, ma gente leale» ripete spesso il presidente della Provincia). Eppure già una volta Zingaretti è stato spedito nelle retrovie dai dirigenti. Era il 2008. Lui, parlamentare europeo e capodelegazione Pse, fu invitato a candidarsi alla Provincia di Roma. «Un ente che nessuno considerava» ammettono oggi anche dal suo staff. Lui accettò, per disciplina di partito. Oltre a un notevole alleggerimento di stipendio, ne pagò le conseguenze a livello di immagine. «Non è un mistero – ricorda oggi qualcuno – che negli ultimi anni la sua figura è rimasta molto lontano dai riflettori».