Altro che Lehman, il sistema bancario ombra è un pericolo peggiore

Altro che Lehman, il sistema bancario ombra è un pericolo peggiore

Il sistema finanziario globale corre più rischi ora che nel 2008, prima del fallimento di Lehman Brothers, la quarta banca americana. Ad affermarlo, senza troppi giri di parole, è il Financial stability board (Fsb). L’organo internazionale di vigilanza finanziaria, guidato dal governatore della Banca centrale del Canada, Mark Carney, ha appena ultimato il suo rapporto sullo shadow banking, il sistema bancario ombra. I risultati sono sorprendenti. Gli asset degli intermediari finanziari non bancari, o Non-bank financial intermediaries (Nbfi), valgono circa 67.000 miliardi di dollari (dati relativi al 2011, ndr), contro i 26.000 miliardi del 2002 e i 62.000 miliardi del 2007. Tanto, troppo. Specie considerando che gran parte di questi asset vengono negoziati al di fuori delle normali piazze di negoziazione. E non è un caso che infatti le dark pool, le piattaforme anonime di trading parallele a quelle tradizionali, abbiano registrato un incremento del 50% degli scambi, solo per quelle che battono bandiera americana.

Oltre alle banche c’è di più. E questo di più è quello che davvero spaventa i regolatori finanziari globali. Istituzioni finanziari opache, che prendono rischi elevati senza essere oggetto di controlli, vigilanza o mitigazione del rischio. Sono gli Nbfi, intermediari finanziari che utilizzano il leverage, la leva per gli investimenti, come e più di un fondo hedge, che di natura può permettersi un’assunzione di rischi ben più significativi rispetto a una normale banca. A spiegarlo con parole semplici è Hsbc in un report di un mese fa: «Le potenziali perdite in caso di turbolenza finanziaria sono ben maggiori adesso che nel 2007, perché oggi tutte le banche e le istituzioni finanziarie non sono più sicure, fanno solo affidamento alle banche centrali, che sono costrette ad agire per via della salvaguardia sistemica». In sostanza, la sporcizia è stata solo spostata, ma non eliminata. Certo, in qualche caso è stata sterilizzata dall’intervento, appunto, delle banche centrali, ma in altri questo non è stato possibile.

Sono gli Stati Uniti a occupare la prima posizione nella classifica dello shadow banking. Con oltre 23.000 miliardi di dollari di asset nel 2011, sono di poco avanti all’eurozona, che può contare su 22.000 miliardi, e sul Regno Unito, circa 9.000 miliardi. Il declino degli Stati Uniti, complici i fallimenti che hanno fatto seguito al crac di Lehman Brothers, è stato però notevole: se nel 2005 valevano il 44%, oggi valgono il 35 per cento. Il resto si è equamente diviso fra Regno Unito e Asia, che rimane uno dei luoghi meno finanziariamente controllati del mondo. La percentuale di Nbif in rapporto alle entità finanziarie tradizionali è infatti maggiore in Hong Kong, dove sono il 35%, nell’area euro, circa il 30%, e in nazioni come Regno Unito, Svizzera, Corea del Sud e Singapore, dove questo genere di società è al 25 per cento. Paradossale è il caso di Hong Kong, dove gli intermediari finanziari non bancari valgono il 520% del Pil. In nessun Paese si supera il 500%, ma qualcuno si avvicina. È il caso dell’Olanda, dove il sistema bancario ombra vale il 490% del Pil. Per fare un paragone con l’intera eurozona, le istituzioni Nbif hanno asset per un valore pari al 111% del Pil dell’area. Come sottolinea una banca tradizionale come Goldman Sachs, fra l’altro anch’essa attiva in questo settore, «ci sono Nbif che, nel caso si ritrovassero a essere corti di liquidità, potrebbero mettere a repentaglio la sopravvivenza delle intere aree in cui operano». Altro che Lehman Brothers. 

Il motivo, sottolinea il Financial stability board, è duplice. Da un lato la mancanza di controllo, unita all’elusione della poca vigilanza che esiste, ha creato dei giganti finanziari che gestiscono immense quantità di asset spesso troppo complessi da comprendere. Come spiega a Linkiesta una fonte di Moody’s «ci sono investimenti in prodotti strutturati complessi che hanno un profilo di rischio semplicemente incalcolabile, dato che potrebbero volerci giorni prima di sapere che cosa è stato cartolarizzato». Dall’altro lato, tuttavia, ci sono gli aspetti più preoccupanti, ovvero l’interdipendenza e l’interconnessione. Questi intermediari finanziari hanno bisogno dei canonici canali di liquidità per sopravvivere e, di contro, forniscono a loro volta la liquidità al sistema bancario. È un gioco mortale. Nel caso un intermediario finisca a gambe all’aria, i risvolti potrebbero essere rilevanti per molti istituti di credito. Viceversa, se gli ingranaggi del sistema interbancario non sono correttamente oliati, ecco che il sistema bancario ombra si inaridisce. Pensare ai due sistemi bancari, tradizionale e ombra, come due elementi a sé stanti non è possibile: sono le due facce della stessa medaglia. Il problema, semmai, è che si è arrivati al punto che dalla sopravvivenza dell’uno dipende quella dell’altro.

Quando, in luglio, il presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi ha parlato dei problemi dell’universo finanziario dell’eurozona, faceva riferimento anche al sistema bancario ombra. Un sistema, fatto di fondi del mercato monetario (Money markets fund, o Mmf), fondi d’investimento ed hedge fund, completamente congelato. Dal mercato interbancario a quello dei repurchase agreement (repo, o pronti contro termine), ciò che mancava era la liquidità. Troppo elevato il premio pagato per l’euro break-up, troppo striminziti i ritorni. Meglio quindi parcheggiare le risorse nelle casse, in attesa di tempi migliori per l’eurozona. A migliorare la situazione è arrivato l’ex governatore di Banca d’Italia, nonché ex numero uno del Financial stability board. Per ora, ha funzionato. Il tutto in attesa di un lento, ma inevitabile, deleveraging. La riduzione degli asset e dei rischi è fisiologica. «Non ci si può più permettere di essere così esposti, così vulnerabili», dice a Linkiesta uno strategist del Credit Suisse. Eppure, per molte entità, questo processo non sembra essere nemmeno iniziato.

Il paragone con il sistema bancario e assicurativo mondiale è significativo. Le banche hanno asset per circa 130.000 miliardi di dollari, mentre compagnie assicurative e fondi pensioni sfiorano i 45.000 miliardi. Nel complesso, 175.000 miliardi di dollari sono nelle mani del sistema finanziario più comune. E poi c’è, come dice a Linkiesta un gestore italiano di hedge fund, «il grande buco nero, in cui entra di tutto e non si sa come ne esce»: il mondo delle Nbif, che vale, abbiamo visto, 67.000 miliardi di dollari. Molto spesso, tutto viaggia nei mercati Over-the-counter (Otc), ovvero non regolamentati.

A guidare questo universo fatto di piccole società che muovono miliardi di dollari non sono però i soliti noti. Non sono, quindi, gli hedge fund, anche chiamati in Italia fondi speculativi. Secondo il rapporto del Financial stability board valgono infatti lo 0,4% delle istituzioni finanziarie non bancarie. La parte più grande è composta dai fondi d’investimento, circa il 35% del totale, seguiti da veicoli finanziari di altra natura, sia strutturati sia normali, il 28% del totale. C’è un po’ di tutto in questo mondo: dai fondi azionari ai fondi obbligazionari, passando per quelli monetari, finendo con quelli specializzati in Exchange-traded fund (Etf), i fondi negoziabili come azioni. Nel complesso, considerando solo i fondi d’investimento tradizionali, si è arrivati a calcolare che detengono asset per circa 19.000 miliardi di dollari. «Una cifra folle, senza alcun senso, perché in molti casi i gestori non sono nemmeno in grado di calcolare il valore mark-to-market del portafoglio dei fondi che hanno», afferma senza mezzi termini il funzionario di Moody’s a Linkiesta. Fondi di fondi di fondi che gestiscono altri fondi di fondi, ma sono gestiti da fondi che controllano banche e altri fondi: il sistema di scatole cinesi, utile per diluire il rischio e le eventuali perdite, non è cambiato rispetto all’inizio della crisi. Anzi, in alcuni casi è perfino aumentato.

È questo l’esempio della Francia. Secondo i dati relativi agli asset gestiti dalle istituzioni finanziarie non bancarie, il sistema francese è vicino al collasso. Colpa delle banche. In questo comparto, le perdite sono il doppio degli asset gestiti dalle Nbif. Colpa dell’interconnessione, storica e consolidata, delle banche francesi con il resto del mondo. È come se gli istituti di credito transalpini fossero la prima porta per i flussi di capitale stranieri, che siano dollari o yen, nell’eurozona. I soli Mmf francesi valgono circa 500 miliardi di dollari, mentre tutto il resto del comparto dei Nbif vale circa 2.600 miliardi. Eppure, il rapporto fra perdite e asset non è sempre stato così. Il punto di svolta, come si evince dai dati del Fsb, è arrivato nell’agosto 2007, quando Bnp Paribas congelò tre fondi (Parvest Dynamic Abs, Bnp Paribas Euribor, Bnp Paribas Abs Eonia) per l’oggettiva incapacità di calcolarne il valore. I tre fondi erano imbottiti di prodotti strutturati legati ai mutui subprime. Lo strategist del Credit Suisse non ha dubbi: «Anche a distanza di anni, dubito che sappiano cosa ci sia dentro». In certi caso, è meglio tenere chiuso il Vaso di Pandora.

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