Così il Brasile combatte la corruzione (ditelo ai nostri)

Così il Brasile combatte la corruzione (ditelo ai nostri)

Può vincere le elezioni un outsider? O per portare casa il risultato deve diventare come gli altri? È la domanda che ci si faceva quando emerse lo scandalo della corruzione degli uomini attorno a Luiz Inácio da Silva. Proprio in questi giorni la Corte Suprema del gigante sudamericano sta discutendo il loro caso e la cosa sorprendente è la gente segue il dibattimento come fosse una partita di calcio (lo racconta il Financial Times), c’è aria di svolta, questa volta sembra si faccia sul serio. Il Brasile, uno dei Paesi più corrotti del mondo, vuole infatti competere anche nella lotta alla corruzione. Una discontinuità col passato che, questa la speranza, obbligherebbe tutti a iniziare, provare, o far finta di correre. Anche noi che spacciamo la legge Severino come un passo avanti. Anche noi che abbiamo un Parlamento che non ne vuole sapere di fare qualcosa di efficace in questo campo. Ma andiamo con ordine.

Lula si candida la prima volta nel 1989 contro Fernando Collor de Mello, un personaggio losco, che ha subito un impeachment per corruzione (un suo fedelissimo, fra l’altro, fu trovato crivellato di proiettili in una stanza di un motel) ma siede ancora in Parlamento. Suo padre, il senatore Arnon Mello, uccise a pistolettate un collega nell’emiciclo della camera alta nel 1963 ma non fui mai processato. Comunque, quella volta Lula perse. E perse ancora sia nel 1994 che nel 1998 stavolta contro un personaggio di spessore come Fernando Henrique Cardoso, un sociologo che ha avuto una certa influenza sulla sua dottrina che ha insegnato anche in Sorbona e alla Columbia. Tuttora si dibatte se il merito del successo economico di Brasilia sia davvero di Lula e non delle coraggiose ed efficaci riforme di Cardoso. 

Comunque, il 27 ottobre 2002 Lula e la sua sinistra radicale vincono le elezioni. I giornali americani, nella loro loro spesso efficace semplicità, commentano: «winners they don’t quit, quitters they don’t win» (i vincitori non mollano, chi molla non vince). Alcuni sostengono che il successo arrivò perché aveva risolto i suoi dubbi sul ripagamento dell’enorme debito estero del Paese. Ma proprio la successiva inchiesta sulla corruzione dei suoi uomini, i vertici del suo partito, fece storcere il naso a molti: per portare a casa dei risultati Lula aveva dovuto diventare come gli altri, aveva dovuto accettare le fangose regole del gioco. Come la famosa pubblicità della Ford T: «puoi averla di qualsiasi colore, purché sia nera». I pessimisti scuotevano la testa lamentando che «allora ha davvero ragione uno scettico come Foucault: il potere non ha un fuori, per entrare devi essere fatto della stessa pasta». 

Si arriva così ad oggi. La crescita non è più il 7,5% del 2010, anche qui la crisi ha fatto rallentare il ritmo, si prevede di tornare a un +4% l’anno prossimo e il governo fa il possibile per accelerare. Come in Cina, e come ovunque la macchina della produzione di ricchezza stia perdendo colpi, cresce l’insofferenza verso i corrotti. Così le udienze alla Corte suprema dove si discute della corruzione dei vertici del Partido dos Trabalhadores sono così popolari che c’è una copertura live degli eventi con tanto di commento in diretta offerto dai professori della Getulio Vargas Foundation. E si capisce il perché. Stavolta l’impressione è che si faccia sul serio, che il paese voglia risalire le classifiche di Transparency International dove ha un punteggio di 3.8 (l’Italia ha 3.9) mentre la Cina ha 3.6,  l’India 3.1, la Russia 2.4. E dove 10 significa che il sistema è “pulito”. Stavolta l’impressione è si che voglia competere con gli altri Paesi emergenti nel campo delle pratiche di governo. Come spiega Alejandro Salas, direttore regionale per Transparency International: «Si vogliono differenziare dalle altre economie emergenti attraverso un miglioramento della governance». La speranza è che questo renda ancora più competitiva questa enorme di nazione di 193 milioni di abitanti, dilaniata da grandi sperequazioni sociali, che la renda ancora più capace di attirare investimenti stranieri. 

Molti dei casi discussi davanti alla Corte hanno già avuto sentenze pesanti. L’accusa nei loro confronti è di avere pagato i politici dell’opposizione per ammorbidirla. Insomma, sono casi diversi dai nostri Fiorito di cui pure pullula questo gigante sudamericano che tiene sempre gli occhi sull’Europa e che deve moltissimo alla cultura francese (la frase nella bandiera carioca «Ordem e Progresso» è un tributo al pensatore positivista August Comte  e alla sua massima «l’amour pour principe et l’ordre pour base; le progrès pour but», «l’amore come principio e l’ordine come base; il progresso come fine», di cui molti dei padri fondatori della Repubblica erano seguaci). Ma che deve anche molto alla violenza che ha caratterizzato nella sua storia il Sudamerica: in Brasile, in 30 anni, sono stati assassinati 72 uomini politici. 

Ma ovviamente non basta questo processo, celebrato fra l’altro mentre alla presidenza c’è un’allieva di Lula comeDilma Rousseff, per capire le intenzioni dei brasiliani, se siamo serie o meno. Altri indizi sono una nuova legge che impedisce ai condannati di candidarsi. E un’altra che autorizza la Corte Suprema a processare i governanti senza più chiedere il via libera al Parlamento. Inoltre l’indipendenza del potere giudiziario, prevista dalla Costituzione del 1988 sta lentamente iniziando a prendere piede. È l’inizio di un processo che potrà mettere alle spalle un passato di giudici iperpoliticizzati e ben poco affidabili. Raccontava anni fa Thomas Hennigan del Times, per cui scrive da Sao Paulo, che «quando qua un imprenditore o un politico finisce in un’inchiesta la prima domanda che ci si fa è: ma a chi ha pestato i piedi?». La giustizia carioca era uno strumento per regolare i conti della politica, un sogno per molti politici a molte latitudini. La differenza è che in Brasile, ora, si cerca di voltare pagina. 

Morale. Forse, come ipotizzano alcuni, questo è il modo di Dilma per evitare che i prossimi debbano anche loro chinare la testa per entrare dalla porta. Sarebbe nobile, ma solo col tempo vedremo se è marketing o sostanza. Tuttavia sembra che sì, qualcosa stia davvero accadendo. Per ora quello che abbiamo capito è che il successo dei paesi non dipende tanto dalla  cultura (come diceva Max Weber) né dalle condizioni geografiche (Jared Diamond) ma dalla qualità delle istituzioni politiche (Daron Acemoglu e James Robinson), frutto di questi e di altri fattori. Il Brasile ne sembra consapevole e inizia con queste mosse una competizione nella governance politico-istituzionale che si spera foriera di miglioramenti anche in altri angoli del mondo. Qualcuno lo spieghi ai nostri: fuori c’è un mondo che cambia. 

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