Pierluigi Bersani probabilmente vincerà le primarie. Lo dice il buonsenso. Lo dicono i numeri. Lo dice la nuova tarantella sulle regole per il voto. Lo dice, soprattutto, la logica di un confronto che è sempre stato impari, vedendo contrapposto il corpo grosso di una struttura (per quanto invecchiata) che può ancora contare su centinaia di migliaia di braccia, contrapposto all’entusiasmo, alla buona volontà, ai naturali errori di inesperienza, di una storia politica – quella dei “renziani” – appena iniziata, e partita sostanzialmente da zero.
Pierluigi Bersani e i suoi sono stati bravi, dunque, a gestire l’esistente, e una serie di vantaggi strutturali che nel partito democratico risalgono di fatto, ancora, al vecchio dna del Pci. Aveva un ampio vantaggio di partenza, ha accettato che Renzi si mangiasse pezzi di consenso con la forza di parole chiave innegabilmente sensate, ha controllato che il margine non si assottigliasse troppo invitando a rottamarsi D’Alema e Veltroni. Per un Renzi che partiva da zero – Bersani lo sa dall’inizio – sarebbe stato assai difficile arrivare al sorpasso, e quindi tanto valeva controllare quella crescita senza acrimonie e minacce (quelle di Massimo D’Alema, per capirci) aspettando che le bocce si fermassero a distanza di sicurezza. Il voto dei milioni di italiani che domenica sono andati ai seggi raffigura in fondo in modo esatto un dato di realtà: una vera e grande voglia di cambiamento, la solidità delle resistenze, e la forza di idee e risorse che ancora manca al cambiamento per riuscire ad imporsi.
Bene, complimenti dunque a Bersani e in bocca al lupo a entrambi per l’ultimo miglio di una sfida che, comunque, ha fatto bene alla politica italiana. Ma detto questo, e guardando a un dopo probabilmente bersaniano, ci tocca una visione che a chi scrive non sembra rosea. Perché i primi segnali, chiari, sembrano ricordarci un passato che abbiamo già visto, che non ci piaceva mentre era il presente e che ha lasciato segni devastanti sul futuro. Se vince Bersani le primarie, con ogni probabilità, il centrosinistra costruirà un’alleanza per vincere le elezioni con l’obiettivo, naturale, di governare in prima persona. Per farlo si procederà di fatto a un’ammucchiata in stile 2006: da Casini (nel posto che allora fu di Mastella), fino a Vendola (versione terzo millennio dell’ultimo Novecento incarnato da Bertinotti), passando forse perfino per Di Pietro (ancora lui, sì), con tutto quel che c’è in mezzo.
E cosa c’è, “in mezzo”? C’è un grande sindacato di lavoratori over 50 e pensionati, la Cgil, che per tramite della sua segretaria generale Susanna Camusso ha detto a urne aperte che, se vincesse Renzi, “sarebbe un problema”. C’è un mondo del lavoro vero e rispettabile, naturalmente, ma che non è mai riuscito a rappresentare i nuovi lavoratori, le partite ive, il precariato di ogni tipo. È un fatto. Di più, c’è un grande sindacato che in tante sue parti ancora coltiva una divisione rigida tra lavoro e “padronato” che, in molte realtà di oggi e di domani, sembrerà anacronistico al di là di ogni normativa sul lavoro. Un blocco che rappresenta molti diritti acquisiti e vive di una previdenza diventata evidentemente insostenibile per nuove generazioni di lavoratori, abbandonati senza troppi drammi al proprio destino. Un blocco che, quando si evidenzia che questa disparità rappresenta un’ingiustizia e certi “diritti” sono in realktà privilegi, cambia argomento e chiede una patrimoniale subito, come se c’entrasse qualcosa.
E ancora, in quell’unica grande chiesa che Bersani porterà come sua costituency sulla via di Palazzo Chigi, c’è una fetta impressionante di voto in blocco che arriva dal sud Italia. Dove la capacità di mobilitazione delle strutture non ha incontrato – vale per almeno tre grandi regioni – nessuna resistenza in un voto di opinione che, storicamente, nel mezzogiorno si è sempre espresso col contagocce. Colpisce, innegabilmente, vedere i dati della Sicilia e della Calabria, e non è possibile rimuovere il ricordo di cosa si diceva, dalle parti di Bersani, quando a fare cappotto, a vincere 62 a 0, era Berlusconi. In questo contesto, l’ipotesi di un’alleanza con Casini sembra un’ulteriore blindatura di un blocco di interesse che sa di un’Italia del passato, non certo inclinata verso un futuro sostenibile: quelle delle corporazioni del pubblico impiego, di milioni di cittadini che percepiscono uno stipendio nelle pieghe di una burocrazia piena di inefficienze e clientelismi.
Ancora, nel mezzo, nonostante i primi importanti passi indietro di big come Veltroni o D’Alema, c’è tanta Italia di vecchio ceto politico, di professionisti a volte bravissimi, ma a volte assai mediocri, che vivono ogni elezioni – aiutate dal tanto disprezzato e mai riformato Porcellum – come il momento in cui vedere finalmente valorizzata la propria fedeltà, valore fondativo unico di tante, troppe militanze.
Ci sono poi, in quell’Italia che va da Casini a Di Pietro, passando per Vendola per farsi “federare” da Bersani, tanti interessi economici e altrettanti specchi del bisogno di riformare questo paese e dargli un’impronta davvero liberale. C’è, naturalmente, la “finanza rossa” di Unipol che di spoinda col salotto milanese di Mediobanca convola a (in)giuste nozze con quel che resta di Ligresti, per sommare due debolezze ed evitare che deflagrino troppo in fretta. Ma c’è la “finanza rossa” di Mps, quella impersonata da Giuseppe Mussari che, in pochi anni, ha portato la più antica istituzione bancaria a un metro dal baratro, ma non ha mai fatto mancare il suo sostegno ai Ds e al Pd, e infatti nonostante tutto resiste stoicamente a capo della lobby delle banche italiane. C’è il suocero di Casini, Francesco Gaetano Caltagirone, bell’esempio di capitalismo di relazione che surfando tra imprese editoriali, consigli di amministrazione e partecipazioni di banche e pressioni sulla politica tiene puntellato un impero immobiliare che trasuda voglia di monopolio.
C’è Di Pietro, cui Bersani non a caso ha addirittura riaperto uno spiraglio nel giorno delle primarie, e fa niente se il recente esplodere della questione morale dentro al partito, e il risalente e dubbio consenso a due cifre incardinato nelle zone di Tonino, consiglierebbero di recidere una volta per tutti i legami con chi ha portato in parlamento De Gregorio, Scillipoti e tutti gli altri. C’è il recente passato, abilmente scomparso dai radar, che riguarda le vicende politiche e giudiziarie di Filippo Penati, in un groviglio di interessi opachi per anni denunciati da pochi tra le alzate di spalle di tutti.
E c’è, infine, una proposta politica tutta fatta da un’immagine di antica affidabilità e buonsenso – ben rappresentati da Bersani – e da poco altro. Non si può ragionevolmente sperare in grandi cambiamenti quando la costituency di fondo è quella che abbiamo descritto fin qui.
È ragionevole sperare che, dopo il secondo turno, in caso di vittoria del segretario, si apra una discussione franca e l’indubbia affermazione di Renzi serva a tutti per comprendere l’insufficienza di questi passati per conquistare il futuro. È doveroso adoperarsi perché, adesso, nuove risorse e sangue fresco, idee diverse e competenze portino linfa dentro al partito che sarà con ogni probabilità architrave di qualsiasi futuro governo. È importante che tutto questo non succeda col bilancino delle percentuali e dei posti sicuri, ma proprio incorpronado lo spirito di un cambiamento di cui c’è grande bisogno. Ma la sensazione di una cappa solida e spessa resta, e per dissiparla non basterà qualche operazione di make up.