«Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni». Fedor Dostoevskj. «La condizione di un popolo si capisce dalle condizioni delle sue prigioni». Bertolt Brecht. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione». Voltaire. Sono le parole scritte da tre altissimi esponenti della storia del pensiero in epoche diverse, profondamente unite da una visione dell’uomo e del diritto che supera i confini del tempo. Quelle frasi accompagnano il filmato «Prigioni d’Italia», realizzato dall’Unione delle camere penali nel corso di un giro drammatico e impietoso di due anni nell’universo penitenziario del nostro paese. Spunto del convegno dal titolo «Carcere: un’emergenza davvero irrisolvibile?», organizzato nell’Aula del Tribunale di Roma dedicata a Vittorio Occorsio, il lavoro getta luce su un panorama tradizionalmente oscurato dai mass media, su un mondo ignorato dalla quasi totalità della politica a vantaggio di comodi, viscerali e redditizi appelli a forme di giustizia sommaria e vendicativa.
Perché, come ricorda all’inizio del filmato il cappellano della Casa circondariale di Sassari, Don Gianni Pinna, «molto spesso la gente pensa di esorcizzare i problemi mettendo tutti quanti in galera». Ed è per richiamare l’attenzione su una problematica difficile e impopolare che i penalisti italiani hanno promosso in tutti i distretti giudiziari una giornata di astensione dalle udienze. Iniziativa che ha costituito l’occasione preziosa per un ragionamento aperto e laico da parte degli attori coinvolti nella questione carceri: avvocati, magistrati, responsabili dell’amministrazione penitenziaria, organizzazioni attive nella salvaguardia di standard essenziali di civiltà giuridica all’interno delle prigioni.
Realtà nelle quali principi come la dignità e la riservatezza delle persone vengono puntualmente violati. Le ragioni di una simile negazione si chiamano costrizione, disordine, accatastamento di esseri umani. Si chiamano assenza di qualunque norma igienica. Fattori che rivelano una clamorosa incompatibilità con i parametri fissati dall’Unione europea. L’articolo 18, primo comma, del Regime penitenziario Ue è inequivocabile: «I locali di detenzione devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana e per quanto possibile della vita privata, e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene». Ma le cause dell’assenza di civiltà nelle nostre prigioni consistono anche nella carenza di strutture ricreative e sportive, in una mancanza di impegno che porta inevitabilmente a forme croniche di depressione oltre che a gravi patologie.
Quadro in cui risulta impraticabile la prospettiva di un autentico recupero sociale come previsto dall’articolo 27 della Costituzione, secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», e dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per il quale «nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti». A fondamento dei drammi che investono questo universo è un sovraffollamento al di là dei livelli minimi di tolleranza: perché promiscuità e degrado rendono esplosiva e soffocante la coesistenza delle persone. Per capire pienamente la portata del fenomeno è sufficiente considerare pochi dati scarni e paradigmatici.
Fino a nove detenuti occupano una cella che ne può contenere quattro, e la gran parte di loro vi trascorre 20 ore su 24. Su una popolazione complessiva di oltre 68mila individui, più di un terzo, 24mila, sono cittadini stranieri e 15mila sono tossicodipendenti. È fin troppo evidente come la loro permanenza in galera sia strettamente connessa alle norme ciecamente repressive e criminogene sull’immigrazione clandestina e sugli stupefacenti. Solo il 20 per cento dei detenuti, infine, svolge un’attività lavorativa nelle strutture penitenziarie o in regime di affidamento ai servizi sociali. Una popolazione carceraria sempre più povera dunque, priva di riferimenti nel mondo esterno e di reali disponibilità economiche. Un mondo costretto quasi sempre a scegliere tra beni di prima necessità per vivere. E troppo spesso quelle persone vengono sopraffatte dall’impossibilità di vivere. Nell’anno passato i decessi nelle prigioni del nostro Paese sono stati 186, 66 dei quali concernenti individui che si sono tolti la vita. A partire dal 2000, le vittime della galera hanno raggiunto il numero di 1940, di cui 696 suicidi. Questa volta è il quarto comma dell’articolo 18 del Regolamento penitenziario europeo a essere negato, sollevando interrogativi inquietanti sulla flagranza criminale della nostra Repubblica: «Ogni Stato deve garantire che il rispetto delle condizioni minime di detenzione non sia compromesso a causa del sovraffollamento carcerario».
Congestione penitenziaria che oggi si attesta al 140 per cento, poiché sono oltre 68mila i detenuti presenti nelle prigioni rispetto a una capienza di 45.636 persone. E il 43 per cento di loro, quasi 30mila individui, sono in attesa di giudizio: secondo le statistiche nella metà dei casi risulteranno innocenti. Si tratta di una calamità civile che non verrà certo superata dall’attuazione del celebre «piano carceri» annunciato diversi anni fa dal Guardasigilli Roberto Castelli e ancora in attesa di realizzazione. Un progetto riproposto con solennità da tutti i suoi successori ma che nelle cifre appare del tutto inadeguato. Sarebbero quattro infatti i nuovi penitenziari da completare, per una capacità di accoglienza che non raggiunge le duemila unità. È altrove che bisogna intervenire, rimuovendo alla radice i motivi del sovraffollamento carcerario. E tali cause, che rispondono alla cultura politica inquisitoria e forcaiola prevalente nel nostro Paese, sono l’abnorme ricorso alla custodia cautelare anche per reati non gravi, la presenza di leggi imperniate sull’uso massiccio e indiscriminato della restrizione della libertà oltre che terreno fertile per nuove azioni delittuose, lo scarso impiego di misure alternative rispetto alla galera. La cui efficacia in termini di prevenzione e deterrenza si riassume in un dato statistico altamente significativo.
A sette anni dalla fine della pena, viene coinvolto nella ripetizione del reato il 19 per cento di chi è stato ammesso a sanzioni diverse dalla prigione: cifra che sale al 68 per cento tra coloro che hanno scontato tutta la condanna in carcere. Per disporre di una panoramica esauriente dei fattori alla base della sovrappopolazione penitenziaria è doveroso includere la carenza cronica di strutture e personale adeguato: agenti, medici, assistenti. I quali sono rimasti pressoché invariati dal 2002, a fronte di un numero di detenuti aumentato dell’80 per cento rispetto a dieci anni fa. Tutto ciò genera una mancanza di capacità di ascolto da parte dell’istituzione carceraria, destinata a provocare effetti nocivi per l’intera società. Perché, come dimostra il tasso crescente di frequenza delle recidive, un universo costruito su simili premesse non potrà mai concorrere a garantire la sicurezza dei cittadini. Che si rivelerà una pura illusione se il mondo politico continuerà a voltare le spalle rispetto alla «prepotente urgenza» del pianeta carceri.
Così l’aveva definita il Capo dello Stato nel corso di un convegno promosso a Palazzo Madama dal Partito Radicale il 28 luglio del 2011. Le sue parole non ammettevano spazi di ambiguità: «Le oscillanti e incerte misure di depenalizzazione e quelle di ciclica ripenalizzazione con crescente ricorso alla detenzione preventiva ci umiliano in Europa, e spingono molti esseri umani a togliersi la vita per una condizione intollerabile che definire sovraffollamento è un eufemismo. Evidente è l’abisso che separa la realtà carceraria dal dettato costituzionale: realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita».
Altrettanto improntata a limpidezza era apparsa la riflessione compiuta dal Pontefice durante la sua visita a Rebibbia il 18 dicembre dello stesso anno: «Sovraffollamento e degrado delle carceri possono rendere più amara la detenzione. È importante da parte delle istituzioni un’attenta analisi di tale realtà, in termini di mezzi e di personale. Lo è anche la previsione del ricorso a pene non detentive più rispondenti al rispetto della dignità umana, affinché i carcerati non scontino una doppia pena». È con queste solenni dichiarazioni e immagini che si conclude il filmato presentato dai penalisti italiani nella stessa giornata in cui Benedetto XVI torna sul tema rivolgendosi alla Conferenza dei direttori delle amministrazioni penitenziarie del Consiglio d’Europa, accompagnati in Vaticano dal Guardasigilli Paola Severino: «Una detenzione fallita nella funzione rieducativa diventa una pena diseducativa, che paradossalmente accentua, invece di contrastare, l’inclinazione a delinquere e la pericolosità sociale della persona».
Altissime esortazioni, che hanno incontrato fino a oggi il silenzio quasi assoluto della politica e l’inerzia legislativa da parte del Parlamento. Parte proprio dallo stallo istituzionale il presidente della Camera penale di Roma Fabrizio Merluzzi, per evidenziare la metamorfosi subita dal carcere nel corso dei secoli: «Quando nel Settecento l’esistenza delle prigioni venne regolata e ufficializzata sotto l’egida di precise norme di legge, fu compiuto un indubbio passo di civiltà rispetto alle sanzioni barbare, arbitrarie e discrezionali in vigore fino alla fine del Medioevo. Poi però l’istituto penitenziario è divenuto una realtà intollerabile e contraria ai suoi presupposti storici: un contenitore indistinto per chi è condannato e marchiato a vita».
Per recuperare la sua funzione e missione di temporanea e limitata restrizione della liberà in vista di un pieno recupero umano, professionale e sociale, «non bastano i necessari provvedimenti di indulto e amnistia», rilanciati dai Radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino e da tempo condivisi dai penalisti italiani. Misure nevralgiche e strutturali da adottare tempestivamente, rimarca l’avvocato, devono essere in grado di decongestionare in maniera permanente la popolazione e la vita carceraria: limitazione significativa del ricorso alla custodia cautelare, depenalizzazione e riforma delle normative sulla tossicodipendenza, che punisce oltre ogni misura la recidiva legata al consumo di stupefacenti.
«Meno galera e più sicurezza sociale» è lo slogan coniato da Alessandro De Federicis, responsabile dell’Osservatorio carceri dell’Unione camere penali italiane, per illustrare la validità e la fondatezza del pieno recupero sociale del condannato anche in termini economici. Attualmente, spiega il legale, le prigioni costano 2 miliardi e 800 milioni in un anno, circa 115 euro per detenuto. Se si puntasse sull’affidamento lavorativo ai servizi sociali delle persone recluse come accade al 74 per cento della popolazione carceraria in Francia – mentre nel nostro Paese il rapporto è rovesciato – il risparmio ammonterebbe a quasi 2 miliardi di euro. L’Italia, evidenzia il penalista, ha già perduto una grande occasione di riforma all’indomani dell’adozione dell’indulto nel 2006, quando vennero rinviate a tempo indeterminato le necessarie misure strutturali legislative tra cui l’aggiornamento della legge Gozzini sulle norme premiali per i detenuti. Oggi, puntualizza De Federicis, «si rischia di perdere la stessa occasione con il decreto legge sulle pene alternative emanato dal governo Monti-Severino, che limita il ricorso agli arresti domiciliari al tetto massimo di pena di 4 anni di reclusione: soglia per cui già oggi quasi nessuno è in prigione».
I provvedimenti delineati dai responsabili delle Camere penali suscitano una convinta adesione negli interlocutori chiamati a discutere. A cominciare dal vice-capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano, a lungo direttore del carcere milanese di San Vittore, il quale delinea un panorama di «contenitori indifferenziati privi di logica e di visione organica mirante al processo rieducativo». Un mondo che desta impressione per la densità dei 15mila detenuti condannati a pene fino ai quattro anni, e dei 10mila sottoposti a sanzioni di un anno. Coloro che vivono in prigione, in altre parole, sono soprattutto gli emarginati, non i più pericolosi: e il carcere finisce per esercitare una sorta di supplenza rispetto alla mancanza delle condizioni necessarie per il reinserimento nella società. Riguardo alle misure alternative previste dalla stessa legislazione repressiva sulla droga, che per le pene inferiori ai 6 anni di reclusione prevede l’affidamento in prova ai servizi sociali, il numero due del Dap è impegnato in un intenso lavoro finalizzato a renderle effettive, anche se le risorse finanziarie sono ridotte ed esistono problemi di competenze sanitarie delle regioni. Stesso impegno e analoghe difficoltà si riscontrano nella gestione delle problematiche del lavoro dei detenuti e nelle iniziative volte ad allargare gli spazi disponibili di movimento e respiro nelle carceri.
Un intervento, quello svolto da Pagano, che trova eco nel ragionamento di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, la storica organizzazione in prima linea nella difesa e affermazione delle condizioni di dignità e civiltà nei penitenziari. Mettendo in risalto «la profonda convergenza di contenuti anche con i vertici dell’amministrazione penitenziaria, nonostante le differenti sfumature di linguaggio», l’operatore umanitario rivendica alla propria associazione il merito di avere messo a nudo nel suo Rapporto annuale «la gigantesca mistificazione rappresentata dal piano per i quattro nuovi istituti di pena, dei quali non vi è notizia». Un «dogma da mettere da parte per recuperare 450 milioni di euro da destinare alla manutenzione e ristrutturazione ordinaria delle attuali strutture penitenziarie, a partire dalle condizioni igienico-sanitarie e di riscaldamento oltre che di corrispondenza fra i posti letto disponibili e il numero delle persone detenute». Gonnella osserva come oggi esista «uno spazio culturale, anche se non politico, per discutere del ruolo e del valore delle prigioni, come hanno fatto i governi politici francese e norvegese, allo scopo di trasformarle da luogo dell’umiliazione a luogo della costruzione di responsabilità».
Possibilità individuata dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, a giudizio del quale il drammatico stato in cui versano le nostre prigioni è dovuto in gran parte all’emanazione negli ultimi tempi di leggi repressive come quelle sull’immigrazione clandestina e sull’inasprimento delle misure cautelari in tema di recidiva. «Norme alimentate da una cultura anti-costituzionale che vede nella detenzione la risoluzione delle problematiche e degli allarmi sociali». La strada da intraprendere con coraggio e fermezza secondo il magistrato richiede una revisione dell’intero sistema sanzionatorio, e prevede in primo luogo il rafforzamento delle misure interdittive e patrimoniali spesso assai più efficaci rispetto alla pena detentiva. «Solo così sarà possibile rendere ragionevoli i tempi processuali e i meccanismi di recupero sociale». Assai più prudente la sua riflessione in merito alla validità e legittimità di un’amnistia, anche mirata e selettiva come auspicato recentemente dal procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. «Non siamo pregiudizialmente ostili all’adozione di provvedimenti di clemenza per affrontare l’emergenza carceraria – spiega Sabelli – Tuttavia tali misure dovrebbero essere introdotte dopo gli interventi legislativi strutturali volti ad ampliare lo spettro delle pene alternative, e a depenalizzare reati che oggi sono alla base del sovraffollamento. In ogni caso, per un’iniziativa in grado di incidere in modo permanente sullo stato delle prigioni italiane, è preferibile il ricorso all’indulto piuttosto che all’amnistia».
Gli esponenti dell’avvocatura e della magistratura rovesciano dunque le priorità proposte dai Radicali, unica forza politica capace di sottrarsi al richiamo alla pancia profonda del paese in tema di carcere e di promuovere una lunga, tenace e dura campagna a favore di un provvedimento di amnistia legale subito. Perché, spiegano, la tragedia delle prigioni italiane rappresenta soltanto l’appendice più visibile dello sfascio dell’intero pianeta giustizia, soffocato dai milioni di processi civili e penali pendenti e dall’ondata di prescrizioni de facto che avvantaggiano le classi privilegiate e negano i diritti più elementari ai ceti più poveri. È tenendo assieme questi obiettivi e arricchendoli con un’iniziativa volta a rendere effettiva la facoltà del diritto di voto per i detenuti che ancora la conservano, che i militanti di Torre Argentina hanno promosso per quattro giorni la battitura delle sbarre delle celle per 15 minuti, seguita da un’ora di silenzio. Protesta che ha riscosso nei penitenziari italiani l’adesione di 30mila persone e che si concluderà questa sera con diversi sit-in davanti alle principali case circondariali.