No, non è la Silicon Valley. Questo è il Paese «sottile» di Pablo Neruda, dove si parla spagnolo, si beve pisco sour e ci si arricchisce con il rame. E dove, almeno da due anni a questa parte, tira aria d’innovazione.
Dal diciassettesimo piano di un appartamento con vista mozzafiato sulle Ande, Claudio Carnino e Nicoletta Donadio, al progetto del Cile ci hanno creduto fin dall’inizio. «È come stare in Erasmus. Si chiacchera, si fa festa, si esce la sera. Di giorno però bisogna lavorare decisi. Perché sei mesi passano in fretta». La loro avventura nel Paese sudamericano è cominciata nel luglio 2011: un’idea innovativa, un programma creato dal governo per attratte imprenditori e, nel progetto pilota, 87 start-up provenienti da 30 Paesi diversi.
L’idea era quella di far diventare il Cile il polo tecnologico d’avanguardia più importante dell’America Latina. Una “Chilecon Valley”, appunto, come l’ha ribattezata di recente l’Economist. Il governo di Santiago, nel 2010, ha creato un progetto chiamato Start-up Chile con l’obiettivo di rendere il Paese l’hub sudamericano per le giovani imprese, un luogo dove attrarre investitori esteri, favorire la diffusione di idee innovative e stimolare i giovani locali ad aprire attività imprenditoriali. Tanto più che sviluppa il punto debole dalla Silicon Valley originale: il rigoroso sistema d’immigrazione degli Stati Uniti.
Le restrizioni sui visti targati Usa rendono difficile, per molti stranieri, fondare una compagnia o lavorare in quel Paese. «Nel Rhode Island, con il nostro primo progetto di start-up, è stato questo il grosso problema: riuscire a ottenere il visto per poter lavorare», confessa il ventiquattrenne Claudio Carnino. Il Cile, invece, ha aperto le sue porte a chi cerca d’innovare la tecnologia: qui un imprenditore con una buona idea può ottenere un visto in un paio di settimane. E non solo. Il governo cileno mette sul piatto quaranta mila dollari a fondo perduto – circa 30mila euro – e un co-working a disposizione per scambiarsi idee e progetti, conoscere investitori locali e studenti interessati. In cambio gli stranieri devono rimanere nello Stato non meno di sei mesi, sono tenuti a condividere il loro know-how e a partecipare a eventi, conferenze e seminari su nuove tecnologie e informatica.
«E non sei mai solo», aggiunge lo startupper italiano che, insieme alla socia Nicoletta Donadio, è rimasto in Cile per avviare Fanchimp, un servizio che aiuta le piccole aziende ad attrarre gente sulla propria pagina Facebook e Twitter e a convertire questi in clienti. I risultati li hanno già visti: a fine gennaio sono entrati in un acceleratore cileno dove Wayra – uno degli operatori telefonici del Paese – ha investito sul loro prodotto. «Appena arrivi a Santiago ti vengono a prendere in aeroporto, ti portano in albergo, ti aiutano a sbrigare tutte le pratiche burocratiche come aprire un conto bancario e richiedere il visto di soggiorno. Insomma pensano a tutto. A te non resta altro che favorire l’imprenditorialità sul territorio e collegarti con gli altri startupper e le aziende locali».
Tra il 2010 e il settembre 2012, Start-up Cile ha organizzato 380 incontri e ha partecipato a più di mille seminari e conferenze. Un programma serio, insomma, che sta per avviare la sua sesta edizione. Tanto da ispirare spin-off in tutto il mondo, come Startup America, Britain, Greece e Italy. A differenza di queste però, dove i poli sono dispersi in vari centri nel territorio, in Cile tutto si concentra a Santiago. E funziona. Perfino Google, il colosso dei motori di ricerca, ha deciso di aprire un suo centro di elaborazione dati in città. Il progetto ha scalato la classifica mondiale in uno studio realizzato da Start-up Compass, aggiudicandosi il ventesimo posto. Il primo in America Latina.
In sostanza, nel 2010 lo Stato cileno ha deciso di scommettere tutto: ha chiamato a raccolta un pool di professori da Harvad e dalla Stanford University e ha messo loro in mano un budget da investire: 40 milioni di dollari. L’idea era quella di diventare l’India o la Cina dell’Occidente. Gli esperti però sono andati oltre: creare una nuova Silicon Valley dal grande potenziale turistico. Detto fatto. Il ministero dell’Economia cileno ha aperto un nuovo dipartimento, chiamato InnovaChile, gestito da giovani funzionari tra i 24 e i 35 anni che da allora hanno selezionato circa 500 aziende e 900 imprenditori provenienti da 37 Paesi. E l’auspicio è di arrivare a finanziare mille imprese entro il 2014.
Ai fortunati consegnano soldi, strumenti, contatti e opportunità, in barba all’alto tasso di microcriminalità e corruzione del Paese. E a un mercato nazionale di piccole dimensioni. Santiago non è certo un paradiso per gli imprenditori. Ma «non è poi così diversa da qualsiasi altra città degli Stati Uniti», racconta l’italiano che nella capitale cilena vive ormai da un anno e mezzo.
Il punto è proprio quello: formare una classe media preparata che manca al Paese. Così se all’inizio molti giovani startupper venivano dagli Stati Uniti e dall’Europa, adesso quasi il 40% delle domande proviene da aziende cilene e la presenza di santiaguini continua a crescere. Chi ha già partecipato, poi, dice di aver beneficiato del lavoro fianco a fianco coi colleghi stranieri.
Alle presentazioni organizzate da Start-up Chile invece arrivano in massa investitori argentini e brasiliani. Pronti a scommettere il proprio capitale sulle idee avanzate dei giovani imprenditori. Tant’è che lo stesso Brasile sta progettando di lanciare un programma simile per attrarre talenti stranieri nelle sue coste entro la fine dell’anno.
Ma anche la Silicon Valley del Sud, secondo l’Economist, ha il suo tallone d’Achille: le startup non nascono in ambienti universitari e non ci sono sufficienti azionisti locali che li appoggiano. Inoltre, così come negli altri Paesi latinoamericani, anche se al momento il governo è uno dei più stabili, l’economia è in mano a un gruppo ristretto di imprenditori e a una burocrazia estremamente conservatrice.