Nelle fredde notti dell’inverno del 1991, facevamo le dirette sulla Prima Guerra del Golfo da un fatiscente appartamento in piazza Santo Stefano, nel centro di Milano. Da una delle finestre della redazione vedevamo i lampeggianti blu della polizia che presidiava il vicino Consolato israeliano. Sembrava di essere in stato d’assedio.
La notte in cui partì il primo missile iracheno contro Israele chiamammo un cittadino di Tel Aviv che ci raccontò, con la maschera antigas indossata, la sua paura. Mister Petman divenne il nostro “inviato” da Israele sotto la minaccia degli Scud. Decidemmo di chiedere un’intervista al Console israeliano. Gli portai in regalo un libro di un ebreo anomalo, Umberto Saba. Non ricordo il nome di quel Console (che non conosceva Umberto Saba!) e neppure che cosa mi disse nell’intervista, ma ricordo chiaramente cosa significava quel gesto: Radio Popolare sta dalla parte dei civili che rischiano – innocenti – la vita per una guerra.
Qualche giorno dopo Giorgio Bocca ridicolizzò il nostro pacifismo definendoci – se non ricordo male – «nipotini di Saddam». Toccò a me rispondere al grande giornalista. Gli ricordai semplicemente che, qualche anno prima, mentre tutti i giornali osannavano per biechi interessi economici (anche in chiave anti-ayatollah) il governo laico di Saddam Hussein, Radio Popolare dava voce ai suoi oppositori che denunciavano torture ed esecuzioni sommarie.
Salto nel tempo. Ventuno anni, domenica 18 novembre, quarto giorno di guerra su Gaza. Stavo preparandomi per l’intervista a Egidia Beretta, la mamma di Vittorio Arrigoni, con Twitter sempre acceso. Vengo attratto da un tweet di IsraelNews che annunciava la partenza verso Gaza di una colonna di camion con aiuti alimentari e medici; decido di retwittarlo aggiungendo un commento banale: «Stupisce solo me?». Se un giornalista non rimane sbalordito per l’assurdità della situazione c’è da preoccuparsi per lo stato di salute della categoria: con una mano ti do un pugno, con l’altra una carezza. L’avrei detto per qualsiasi altro conflitto. Ma evidentemente ho toccato un nervo scoperto perché una decina di minuti dopo mi arriva una risposta raggelante: questa notizia stupisce – dice un utente – solo chi considera «Israele una gang di criminali». Ergo: chiunque fa un rilievo critico diventa automaticamente un nemico. Rispondo su Twitter che non ho detto che Israele sia una gang di criminali. La replica è ancora più significativa: lo stesso utente mi accusa di aver definito nella rassegna stampa del giorno prima su Radio Popolare «il solito Pierluigi Battista» perché difendeva Israele. Non mi piacciono i flaming e quindi interrompo il botta&risposta. Altrimenti avrei spiegato che ho aggiunto “il solito” al nome dell’editorialista del Corriere della Sera perché aveva ripetuto ragionamenti già letti altre volte.
Ma c’era comunque qualcosa di stonato: la difesa di Israele. Beh, io non faccio il giornalista per difendere qualcuno; io provo a raccontare i fatti, a contestualizzarli, a porre delle domande, a fornire chiavi di lettura, anche se risultano ruvide. Quando ho letto l’articolo di Jacopo Tondelli su Linkiesta ho tirato un sospiro di sollievo: non sono solo.
Sono convinto che chiunque sia stato in Medio Oriente, abbia visto la porta di Damasco o l’ospedale Shifa di Gaza non possa rimanere asettico. Ma un conto è la vicinanza umana che prova, un conto è l’analisi giornalistica. Due popoli, una nazione cresciuta con il mito della forza militare che sconfigge i nemici che l’accerchiano, una quasi-nazione cresciuta con il mito dei torti subiti dall’occupante non potranno che farsi la guerra. E ci sarà sempre qualcuno che può rivendicare – spesso solo con la propaganda – che ha più ragione dell’altro a colpire il nemico/vicino. Non c’è niente di peggio per un giornalista che schierarsi acriticamente, per appartenenza o per simpatia.
Nessuno di noi giornalisti riuscirà mai a essere decisivo nella disputa per quella terra troppo promessa. Ma potrà essere molto d’aiuto se proverà a interrompere la spirale violenza/vendetta, per esempio, raccontando senza fare sconti a nessuno l’assurdità della guerra, o dando visibilità a tutte quelle realtà che promuovono il dialogo. Israeliani e palestinesi (di Gaza) hanno votato i loro governanti scegliendoli tra i più estremisti e guerrafondai: élites che possono sopravvivere solo se riusciranno cinicamente a mantenere uno stato di conflittualità e di paura.
Proprio per questo motivo sarebbe ancora più utile se dall’interno delle comunità d’appartenenza si alzassero voci “contro”. Cito, senza averli avvisati prima, due amici: se Emanuele Fiano, deputato del Pd, orgogliosamente fiero della sua appartenenza alla comunità ebraica italiana dicesse adesso che bombardare Gaza è un crimine; se Hani Gaber, rappresentante dell’Autorità nazionale palestinese per il Nord Italia dicesse ora che lanciare razzi sulla popolazione civile israeliana è un crimine credo che rischierebbero di essere definiti traditori da alcuni dei loro “fratelli”, ma considererei quelle condanne vere e proprie medaglie di cui fregiarsi.
*ex direttore di Radio Popolare