Obama è stato rieletto concentrando la campagna elettorale sui problemi domestici. A mettere il naso fuori dagli Stati Uniti, il panorama è apocalittico. I quattro cavalieri dell’Armageddon sono noti: la crisi nucleare iraniana, le rivolte islamiche, il tracollo dell’euro e il rallentamento cinese. Esiste anche un quinto cavaliere, che però preferisce stazionare in patria: il deficit federale degli Stati Uniti. A detta dell’Economist, questo è il problema principale, in quanto “gli Stati Uniti non possono andare avanti imponendo tasse da small state e spendendo come un big state. Il problema è che se qualsiasi dei cavalieri dell’Apocalisse esteri decidesse di trottare verso il Nord America, quello domestico attaccherebbe Washington al galoppo.
Si diceva che le (ri)elezioni dei presidenti non si vincono mai sulla politica estera, ma sulla politica estera si possono perdere. Un caso eclatante è quello di Bush padre, che dai trionfi di Desert Storm del 1991 ha dovuto subire un attacco feroce da Clinton/Gore che lo accusavano di essersi interessato troppo di Saddam, e poco della crisi economica domestica («It’s the economy, stupid!», era lo slogan – con l’epiteto vagamente riferito a Bush). La tattica è stata impiegata anche da Obama, che l’ha invertita: non appena Romney portava la discussione su qualcosa che non fosse industria dell’auto in America o disoccupazione in America o sistema educativo in America, Obama lo accusava di non voler affrontare temi di politica domestica.
A questo punto, però, messe in cantiere le elezioni, occorre affrontare i problemi passando dalla dialettica, al piano reale. Ricorda Jacopo Barigazzi che se a gennaio non si trova un accordo sulla spesa federale, scatterà un “fiscal cliff” con tagli della spesa e aumento delle tasse per 600 miliardi di dollari. In qualche modo, Obama ce la farà; e anche se non ce la farà, non si dovrà preoccupare di essere rieletto, per cui potrà tranquillamente rimanere alla Casa Bianca per quattro anni.
Ma come affrontare i problemi esteri? Si tratta delle sfide più difficili mai affrontate da un presidente americano dai tempi dell’Indipendenza. È la prima volta che gli Stati Uniti devono avere a che fare con crisi della portata di quella attuale, senza rivestire una posizione davvero egemonica. Anche se in valore assoluto l’economia rimane la prima al mondo, ormai il Paese è troppo dipendente dalle iniezioni di debito estero (e in particolare cinese) per poter godere di vera libertà di azione. Anche la supremazia militare è stata messa in discussione: Bush (figlio) ha deciso di pagare gli interventi militari in Iraq (2003) e Afghanistan tramite “emergency spending”. Ciò significa che, per la prima volta nella storia contemporanea degli Stati Uniti, una guerra (o due) è stata pagata senza un piano preliminare di budget – e il costo complessivo delle operazioni in Medio Oriente è stato calcolato in circa tremila miliardi di dollari (si veda il libro di Joe Stiglitz-Linda Bilmes The Three Trillion Dollar War, Norton). Sembra quindi che il sistema del debito americano verso l’estero, detenuto per il 42 percento da Cina e Giappone, sia alla base dell’approccio militare americano: non a caso, la spesa per la difesa in America vale oltre 660 miliardi di dollari, pari al 4,6% del totale dell’economia americana (se non si considera la spesa in “homeland security).
Non sarà possibile affrontare i quattro cavalieri se prima non saranno state poste le basi per un riordino dei conti domestici. Senza soldi non si va alla guerra, e senza soldi – in certi circoli – non ti ascolta nessuno. Ogni americano deve ai creditori esteri di titoli di stato statunitensi qualcosa come 17.500 dollari. Se a questi aggiungiamo i debiti detenuti da soggetti americani, il debito pro-capite è di 52.000 dollari, mentre il debito per ogni cittadino che paga le tasse è (spaventosamente) di oltre 140.000 dollari. Ciò che si sta verificando in questi anni è stato paragonato al crollo del sistema imperiale sovietico, basato sulla territorialità, ma sembra più simile al crollo dell’Impero Britannico. Prima di tutto, c’è un’eccessiva disponibilità di moneta che non trova possibilità d’investimento. Seguono i problemi sociali: la polarizzazione dei redditi è sempre più evidente. Le ex “colonie” del sistema di mercato, poi, hanno acquisito gli strumenti della “potenza egemone” e li hanno fatti propri, cercando strade autonome. È il caso della Cina, che ha inserito elementi di libero mercato nella struttura mono-partitica; e di tutto il Medio Oriente, che ha adottato il sistema democratico come mezzo per l’installazione di governi filo-religiosi (e occorre ricordare qui l’interessante Who are we? di Samuel Huntington, secondo il quale il sistema democratico americano è pensato per proteggere l’identità cattolico-protestante).
Perché tutta la ristrutturazione domestica americana sia possibile, non basterà ovviamente il secondo mandato di Obama. È per questo che per molti anni gli Stati Uniti non potranno più intervenire in maniera autonoma, ma dovranno cercare una collocazione all’interno di un sistema a rete. Nei periodi post-imperiali si assiste cioè all’installazione di una sorta di “Nuovo Medioevo” in cui emergono le potenze regionali, e le ambizioni di Egitto, Iran, Israele ne sono l’indice evidente. È una tendenza tipica dei periodi di crisi domestica statunitense (come nel caso della crisi dello Yom Kippur del 1973 o dell’invasione sovietica dell’Afghanistan).
Il modello degli Stati Uniti non deve essere quello dell’intervento militare in Europa nel 1944, ma quello della Gran Bretagna alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Dopo che Churchill aveva perso le elezioni, il nuovo premier laburista Clement Attlee riconobbe il declino britannico e chiese il sostegno degli Stati Uniti per contrastare l’influenza sovietica in Iran (che allora era una roccaforte petrolifera di Londra). La “crisi iraniana” del 1945-46 fu risolta grazie all’azione congiunta di una potenza in declino (il Regno Unito) insieme a una in emersione (gli Stati Uniti). Ciò comportò l’ingresso definitivo degli americani nel quadrante (dopo un primo approccio con l’Arabia Saudita nel febbraio del 1945), ma procrastinò il tramonto della Corona Inglese in Medio Oriente per qualche anno.
Analogamente, mancando di sufficienti risorse autonome, gli Stati Uniti dovranno per questo fare necessariamente sponda sulla Cina per la risoluzione della questione mediorientale. Un indizio chiaro di quest’opportunità è dato dai recenti sviluppi in Iran: le sanzioni contro il regime teocratico hanno iniziato a funzionare non appena Pechino si è convinta a ridurre i rapporti commerciali con Teheran. Obama adotterà una strategia di “accerchiamento” contro l’area problematica del “Greater Middle East” (dal Pakistan al Marocco) e della Russia, sfruttando l’azione cinese. Ciò consentirà di salvaguardare la quota di debito americano in mano asiatica, e di contenere le pulsioni destabilizzanti provenienti dal mondo islamico-ortodosso. Rimarrà centrale il ruolo d’Israele, con il quale Obama dovrà necessariamente ricostruire i rapporti. A quel punto, senza la Cina alle spalle e con Gerusalemme pronta a intervenire, nonché piegato dagli strali delle sanzioni economiche, l’Iran potrebbe cambiare l’idea sulla propria condotta politica. Ciò comporterà un riequilibrio ulteriore dei rapporti di forza tra le sponde del Pacifico (dagli Stati Uniti alla Cina), ma è il male minore. A meno che, gli Stati Uniti non vogliano continuare a coltivare romantiche velleità di dominio. Ma dove si va, con un debito da oltre 16.000 miliardi di dollari?