Gli Stati Uniti hanno deciso. Una notte appassionante di sfide serrate negli Stati più incerti, considerati cruciali per l’esito della competizione presidenziale, ha visto milioni di cittadini-elettori scegliere in maniera inequivocabile l’inquilino della Casa Bianca, ma anche l’indirizzo politico maggioritario nei due rami del Congresso, il Senato e la Camera dei rappresentanti. Nella stessa giornata gli americani hanno votato per numerosi governatori e per i parlamenti statali, per gli sceriffi e gli organi rappresentativi delle contee, per i sindaci di metropoli e piccoli villaggi. E hanno espresso la propria volontà sovrana su una vasta gamma di temi e problematiche civili, sociali, giuridiche, economiche, grazie all’ondata di referendum che dal riconoscimento pubblico dei matrimoni gay alla legalizzazione delle droghe leggere, dalle campagne contro l’oppressione fiscale alla validità della pena capitale, hanno offerto risultati sorprendenti ed esemplari. Un intero paese ha rinnovato in una giornata di novembre le ragioni per partecipare e mobilitarsi, lottare fino all’ultimo almeno per un obiettivo, fare lunghe file davanti ai seggi per incidere davvero sul proprio destino. Un esercizio umile e rigoroso di democrazia politica, realizzato a ogni livello istituzionale con la consapevolezza che le persone potessero contare, influire, orientare la direzione di marcia di una grande comunità.
Tutto ciò è stato reso possibile dall’assetto istituzionale e dalle regole elettorali che da oltre due secoli costituiscono l’ossatura e l’anima della vita pubblica statunitense, la causa profonda della sua unicità. Risiede nelle origini culturali e storiche della nazione nata dall’esperienza costituzionale delle tredici colonie, dalla rivoluzione e dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, dal dibattito approfondito che sfociò nella Carta del 1787. Le istituzioni create e difese dai padri costituenti sono tutte ispirate ai principi della competizione tra visioni del mondo, tesi e universi ideali, interessi alternativi, incarnati dalla personalità e dalla storia dei candidati. È la cultura del conflitto come motore e sale della società aperta, concepita da una generazione imbevuta dei valori dell’Illuminismo liberale e dei diritti individuali, che ha guidato le dinamiche politiche negli Usa. A parte rarissime eccezioni, tutte le votazioni celebrate il 6 novembre appaiono accomunate da un punto: la filosofia pienamente maggioritaria dello scontro fra aspiranti presidenti, senatori, deputati, governatori e parlamentari statali, primi cittadini. Gli elettori statunitensi prima hanno potuto designare i concorrenti alle cariche pubbliche attraverso una durissima e impietosa selezione primaria all’interno delle grandi formazioni partitiche, e poi hanno scelto con un tratto di matita, il movimento di una leva, la lettura ottica della scheda, una delle opzioni in campo. Che a ogni livello si sono presentate con il volto, il profilo, le iniziative e la credibilità di una persona, costretta a duellare in un territorio ben definito con uno o più rappresentanti di partiti antagonisti.
È grazie al meccanismo maggioritario uninominale che i cittadini sono stati messi nelle condizioni di conoscere in profondità la figura del candidato, di apprezzarne qualità e debolezze, ombre e virtù, illuminati dal confronto dialettico con il valore dei suoi avversari di collegio. E hanno potuto appassionarsi, attivarsi, dividersi e unirsi allo stesso tempo nella limpidezza di una regola semplice come lo sport, dove si vince e si perde nettamente in una corsa comprensibile a tutti. Al termine della quale il risultato è inequivocabile, corrispondente alla volontà espressa dall’opinione pubblica, in grado di decidere governo e maggioranza parlamentare dei differenti organi istituzionali. E di provocare con il voto la fine di consolidate carriere politiche, il tramonto e la messa in discussione di intere classi dirigenti.
Un metodo che ha dispiegato gli effetti più competitivi, spietati e coinvolgenti, proprio nell’investitura del Capo dello Stato. Frutto di un originale e lungimirante punto di incontro tra l’esigenza di una scelta democratica del presidente e la natura radicalmente federalista di un’unione di colonie, le regole concepite per la corsa alla Casa Bianca producono oltre cinquanta competizioni in ciascuno degli Stati nordamericani. Che divengono così il teatro e l’arena di uno scontro mutevole in base alle caratteristiche, alle tradizioni e alle problematiche dei diversi territori. Ad essi e ai loro abitanti i candidati devono rapportarsi seriamente se vogliono conquistare la totalità dei Grandi elettori assegnati a ogni distretto. Se ciò vale per le aree tradizionalmente legate al proprio partito, è tanto più vero per gli Stati da sempre aperti e incerti, dominati da un elettorato fluttuante e liquido, microcosmo delle dinamiche e delle contraddizioni del mosaico sociale ed etnico americano. Aree come la Florida e l’Ohio, la Virginia e il Colorado, il Wisconsin e la Pennsylvania, rivelatesi decisive questa notte e teatro, soprattutto nei primi tre casi, di continui capovolgimenti di fronte. È in una decina di zone indecise fino all’ultimo che si determina l’esito di una lunga e costosa campagna presidenziale. Ed è grazie al ruolo di prezioso ago della bilancia che gli elettori di realtà territoriali e demografiche di medie dimensioni possono bilanciare lo strapotere degli Stati più popolosi in termini di delegati presidenziali.
Lo “spettacolo” offerto nell’arco di poche ore dalla democrazia Usa e dalle sue regole costitutive è stato trasmesso in quasi tutto il mondo libero. Ma il suo valore non sembra avere contagiato l’universo politico del nostro paese, che ancora una volta ha ritenuto di non dovere trarre alcun insegnamento né spunto dalla tornata elettorale d’Oltreoceano.
Nel pomeriggio di ieri, poche ore prima che le proiezioni e i dati dello spoglio del voto negli Stati Uniti affluissero nei media italiani, la Commissione Affari costituzionali del Senato approvava il testo della nuova legge elettorale, da trasmettere all’esame dell’Aula. Per una singolare e curiosa coincidenza storica, proprio nel giorno della celebrazione della democrazia competitiva e decidente, la classe partitica nazionale agiva nella direzione diametralmente opposta. E metteva a punto, grazie all’opera degli “esperti” di diverse forze, un testo pienamente proporzionale basato sul voto di lista ai singoli gruppi, arricchito da una “perla” che sancisce la totale restaurazione dei meccanismi e delle prassi della prima fase della vicenda repubblicana.
Alle oligarchie e burocrazie partitiche non bastava infatti l’affermazione definitiva del metodo di scrutinio proporzionale, che si limita a fotografare nel Parlamento la frammentazione politica presente nella società, valorizzando l’identità e la rendita di ogni etnia e fazione, riducendo le elezioni a un grande sondaggio finalizzato a ridisegnare i rapporti di forza e i loro impercettibile cambiamenti, costringendo i cittadini a divenire i tifosi e il coro delle varie tribù, rendendo ingovernabili le istituzioni. Perché tradizionalmente quel meccanismo di voto esalta le singole bandiere ideologiche, incoraggia l’affermazione di gruppi dogmatici e velleitari stretti nella morsa tra una sterile testimonianza e una spinta ai compromessi di breve respiro con le formazioni più lontane.
Anziché promuovere e incentivare i processi di aggregazione politico-culturale in pochi grandi schieramenti con ambizioni di governo, e proiettare nelle istituzioni pubbliche la dinamica bipartitica dei principali orientamenti ideali che animano la collettività, il proporzionale toglie ai cittadini lo scettro delle decisioni strategiche. Non sono gli elettori a determinare con il voto la direzione di maggioranze parlamentari limpide e omogenee e quindi l’indirizzo dei governi, ma tutto è delegato alle trattative estenuanti e laboriose tra gruppi dirigenti dei partiti all’indomani delle elezioni. E, come insegna in modo illuminante la storia italiana, non ha limiti la loro fantasia nell’escogitare le combinazioni e le formule più incomprensibili e spregiudicate, prescindendo del tutto dalla volontà manifestata dall’opinione pubblica.
Ma a un modello oligarchico e radicalmente ostile alla competizione democratica i nostri “novelli costituenti” hanno voluto aggiungere due istituti rispondenti alle urgenze di auto-conservazione dei propri apparati. Per eleggere due terzi dei parlamentari saranno reintrodotte le gloriose preferenze, cardine delle tornate elettorali dal 1948 al 1992 e fonte a ogni livello, come testimonia la cronaca giudiziaria degli ultimi vent’anni, di malaffare, clientelismo e voto di scambio, guerre intestine e dilanianti fra esponenti delle stesse formazioni, riduzione dei partiti ad alleanze tra correnti e cordate di potere, infiltrazioni e predominio della criminalità organizzata nella corsa selvaggia ai pacchetti di consenso.
Tuttavia, di una realtà eloquente e indiscutibile come quella provocata dall’applicazione delle preferenze i nostri legislatori non mostrano alcuna consapevolezza, ripetendo come un mantra ossessivo che solo tale istituto permette ai cittadini di “scegliere liberamente i parlamentari”. Parole smentite da un’attenta osservazione dei fatti, se pensiamo che in realtà quel meccanismo premia soltanto l’insediamento capillare dei politici noti e più potenti, forti di avamposti sicuri e feudi di consenso difficilmente espugnabili. Gli outsider desiderosi di intraprendere una radicale campagna di rinnovamento nei partiti e nelle loro classi dirigenti vengono puntualmente estromessi ed emarginati dal gioco perverso degli incroci di preferenze. Altrimenti sono costretti ad abbandonare qualunque anelito riformatore, accettando di essere cooptati e inglobati nelle diverse cordate di boss, satrapi e padrini locali.
Ma la convinzione nella bontà del ritorno delle preferenze è talmente radicata che l’organismo parlamentare ha votato a grande maggioranza un emendamento del centro-destra orientato a riportarle a tre. Nessun problema a calpestare il referendum che nel giugno del 1991 aveva abrogato le preferenze multiple a causa della loro immoralità. Se il ritorno in grande stile ai riti della prima Repubblica viene assicurato dalla reintroduzione di un marchingegno presente solo in Italia, la soluzione concepita dagli uomini della Commissione senatoriale per designare l’ultimo terzo dei parlamentari riflette un omaggio alla maggiore novità portata dal Porcellum nel nostro ordinamento. Per garantire a tutti gli apparati partitici una sicura sopravvivenza elettorale in una tornata che si preannuncia dominata dall’indignazione popolare contro i privilegi e gli abusi della “Casta”, è stato previsto il mantenimento di un terzo di rappresentanti inseriti nelle liste bloccate. Solido rifugio e paracadute per tutti coloro che hanno il terrore di presentarsi al cospetto del corpo elettorale, la norma consacra il rovesciamento del principio elettivo-democratico con il primato della nomina dei parlamentari da parte dei vertici politici.
Così si delinea la filosofia portante e il profilo della “nuova” legge, che ancora una volta sancisce l’eliminazione dall’orizzonte pubblico italiano di qualunque riferimento all’adozione di modelli maggioritari di collegio, alla base delle dinamiche politico-istituzionali dei paesi anglosassoni e della Francia repubblicana. Sono meccanismi troppo rischiosi per la sopravvivenza di un intero ceto politico, che verrebbe letteralmente travolto dall’affermazione di una dialettica competitiva, spietata, aperta come quella americana. La pretesa di eternità che contraddistingue lo spirito e i comportamenti della classe dirigente rende impossibile qualunque riflessione sulla validità dell’uninominale.
L’incompatibilità è assoluta, radicale, antropologica. Restano però in piedi i problemi di governabilità nell’applicazione del metodo proporzionale. Così, per affrontare il nodo della formazione di una maggioranza parlamentare solida in grado di dar vita a un esecutivo stabile, i nostri legislatori hanno attinto all’esperienza storica delle riforme elettorali del Novecento. Tutte, dalla legge Acerbo del 1924 alla “legge truffa” del 1953, fino alla normativa messa a punto da Roberto Calderoli nel 2005, accomunate dalla previsione di un premio di governabilità alla formazione, schieramento e coalizione più votata. Un’assegnazione aggiuntiva di seggi stabilita a priori in un numero fisso, che altera artificiosamente il responso delle urne e prescinde dall’effettiva portata di una vittoria elettorale.
Storicamente osteggiata dalle forze progressiste come “ingiusta e discriminatoria” perché favoriva forzatamente la compagine governativa centrista e democratico-cristiana, oggi viene invocata come indispensabile proprio dal gruppo dirigenti del Partito democratico. Il quale, abbandonata in partenza e rapidamente ogni battaglia a favore del maggioritario di collegio a doppio turno e di una democrazia competitiva per ricercare il compromesso con le forze fautrici del proporzionale, oggi si ritrova da solo a combattere per il bonus più ampio possibile a favore dello schieramento prevalente. La ragione di tale posizione, così come quella dei suoi più strenui oppositori, è semplice: gli uomini del Nazareno sono certi di vincere le prossime elezioni e pretendono un risultato parlamentare netto e indiscutibile, che li ponga nelle condizioni di governare efficacemente e per l’intera legislatura. Per rendere plausibile la prospettiva di un esito limpido con vincitori e sconfitti chiari nella primavera del 2013, gli esponenti del Pd chiedono che la soglia minima per ottenere il premio di maggioranza a favore della coalizione più votata si attesti al 40 per cento dei suffragi. Richiesta respinta in blocco delle forze politiche che, ricostituendo ancora una volta la Casa delle libertà artefice dell’abbandono del Mattarellum e dell’avvento del Porcellum, hanno individuato nel 42,5 per cento il livello necessario per accedere al bonus. Che altrimenti, è scritto nel testo della nuova legge, si limiterebbe a un 10 per cento in capo al primo partito, costretto a ricercare in Parlamento la disponibilità per un’alleanza di governo.
Esattamente come in Grecia, dove un panorama rappresentativo assai frastagliato ha portato alla formazione di un governo di unità nazionale. È lo sbocco a cui stanno lavorando da mesi le forze del centro e della destra terrorizzate dallo scenario di un tracollo elettorale, e per questo motivo desiderose di proseguire anche il prossimo anno l’esperienza del governo Monti. Neutralizzando sul nascere il rischio di un esecutivo politico forte a guida Bersani (sempre che vinca le primarie) e riuscendo a esercitare un ruolo nevralgico nella vita e nelle scelte del futuro governo. Tra loro vi è, e non lo ha mai nascosto, quel Pier Ferdinando Casini che appare ancora un interlocutore privilegiato del segretario democratico, in vista dell’asse salvifico “progressisti-moderati”.
Contraddizioni inspiegabili, proprie della palude magmatica degli scenari politici italiani. Anche se ci illudiamo del contrario per una notte vissuta con passione e trasporto, l’America è quanto mai lontana. Quella che si respira da tempo nei palazzi del potere romano è l’atmosfera levantina di Bisanzio.