Nell’epoca della rete certi tic del Novecento non scompaiono. Tra le cose che internet non sta cancellando, e anzi amplifica a dismisura, ci sono certi antichi e consolidati riflessi condizionati. Che trovano, nella rete, il naturale terreno di propagazione senza verifica, e tante bacheche di Facebook, o canali di Twitter, finiscono col diventare non più o non solo una rappresentazione di ciò che interessa, si pensa o piace, ma piuttosto lo specchio di sé che si vuole mostrare al mondo. Insomma, le bacheche di Facebook sono, in alcuni casi, un biglietto da visita che mostra chiaramente la propria identità.
Capita sempre, questo, quando un paese ombelicale e dal dibattito più autoreferenziale e provinciale d’Europa si confronta con l’eterno ritorno della guerra in Israele. I primi a scattare, naturalmente, sono i professionisti del conflitto israelo-palestinese che si sono da tempo decisi a fare il passo, e con ripetitività ossessiva declinano se stessi in base a quella guerra, a quelle sofferenze, a quei diritti violati, a quel muro che separa due popoli. Ci sono anzitutto due minoranze militanti. La prima, più nutrita e con solide radici a sinistra (ma anche in certa destra anti-araba) non sta mai più di tre giorni senza scrivere qualcosa sulla tragedia palestinese. La seconda, assai più esigua, non sta mai invece più di tre giorni senza scrivere qualcosa in difesa di Israele: “l’unica democrazia del Medioriente” è il loro slogan preferito e risalente. Quando scoppia l’ennesimo capitolo di una guerra queste due “minoranze attive” scattano subito e riempiono la rete – in chiave offensiva o difensiva – dei loro messaggi, della loro controinformazione o della loro propaganda da tifosi. Così, i due partiti di quelli che “Israele ha sempre torto” e “Israele ha solo e sempre ragione”, paradossalmente, si trovano piuttosto bene nei momenti in cui il conflitto permette loro di raffigurarsi. Questo ovviamente non stupisce, come non stupisce che (non solo sul web, anche sulla carta) le riflessioni pacate e l’analisi dei fatti scevra da partigianeria e ideologia siano ampiamente minoritarie rispetto alle grida di dolore, di rabbia e di guerra di una delle due parti in causa: quasi dimenticando, chissà come, che questa lunga e tremenda guerra è tutta loro da ormai qualche decennio.
Ma a stupire – appunto – non sono i professionisti dell’indignazione, o coloro ai quali la vicenda israelo-palestinese sta davvero a cuore sempre. A stupire sono quelli e quelle – tanti, tante – che passano con nonchalance, in men che non si dica, da una foto del profilo che raffigurava scene di spiaggia, tette esplosive in costumini succinti e romantici tramonti a foto di bambini di Gaza orrendamente sfigurati dai caccia israeliani. La giustificazione naturalmente è pronta subito, e assai nobile: “Lo faccio per sensibilizzare e per informare”. Quasi che davvero si potesse credere che una guerra che fa decine di morti si capisca meglio, e in modo più chiaro, quando si è visto ed esposto il cadaverino di un povero bambino, che nessuno restituirà a se stesso e alla sua famiglia. Quasi che mostrare innocenti vittime palestinesi, o case israeliane distrutte dai razzi, renda superfluo informarsi davvero – ma davvero – su una storia fatta di errori ed orrori da ambo le parti.
Una storia che vede fronteggiarsi – in estrema sintesi – due nazioni e due società (israeliana e palestinese) in cui negli ultimi decenni sono andate prevalendo spinte e pulsioni di regressione culturale e civile, che sempre rendono più facile il ricorso alla forza invece che alla violenza. In un terra contesa da due popoli entrambi aventi diritto (secondo la legge internazionale e tante tante pronunce) a uno stato proprio, ma entrambe incapaci di esprimere una classe dirigente disponibile a trovare una lingua comune sul terreno del compromesso, e non su quello della forza. Una storia fatta di un popolo e di una nazione decisamente più solida e forte e di un’altra più debole, questo è indubbio, ma anche di insicurezze permanenti che restano – nel più forte – se da quando esiste ha sempre dovuto difendersi da vicini che – esplicitamente – non ne riconoscevano il diritto ad esistere. Una storia e un conflitto, quello israeliano-palestinese, che ora più che mai ha la dimensione del conflitto regionale, adesso che i destini del mondo corrono sull’asse che New York arriva al Giappone passando per Londra e Berlino, fino a Mosca e Pechino. Una vicenda storica carica di simboli, certo, ma che non sarebbe intellettualmente onesto non riconoscere come tali: cose importanti, i simboli, ma non più dei diritti da riconoscere, né dei pesi da dare accuratamente. Cosa che invece, quando si parla di Israele e Palestina, non capita quasi mai e solo a qualche pedante commentatore ricorda sempre che, quando un regime arabo uccide migliaia di persone, nessuno ne parla; quando invece si riaccende la solita vecchia guerra tra israeliani e palestinesi, allora tutti si accorre a indignarsi.
Insomma, siamo di fronte a una storia complessa, fatta di torti, errori e ritardi lunghi e condivisi. Di mentalità in arretramento e non in avanzamento, di provocazioni e attacchi che risalgono a tanto tanto fa, di giovani che fanno il soldato – alcuni con senso critico, altri pensando che i palestinesi siano tutti cani – e di altri giovani che si fanno indottrinare in nome dell’Islam, oppure cercano ponti di ragionamento e dialogo (anche durissimo) con la controparte israeliana. Parliamo di una storia complicata, sì, e dal calduccio delle nostre case, ogni tanto, invece di gridare e fare il tifo per gli uni e per gli altri potremmo fermarci anche a pensare. A pensare, ad esempio, che solo una vera novità nelle società israeliana e palestinese potrebbe una volta per tutto imboccare il cammino della soluzione del problema. Potremmo in definitiva pensare che ogni popolo è anche artefice, e mai solo soggetto passivo, del suo destino. Ci servirebbe per guardare con più lucidità a Gaza e Gerusalemme. Ma forse ci aiuterebbe a capire meglio anche Roma e Milano.