Il vaticino dell’oracolo d’America: vincerà Obama, ma per poco

Il vaticino dell’oracolo d’America: vincerà Obama, ma per poco

TERRE HAUTE, Indiana – Da 120 anni la contea di Vigo nell’Indiana sud-occidentale azzecca il presidente. Ha incominciato nel 1892 con il democratico Grover Cleveland contro Benjamin Harrison e ha fatto centro per la ventottesima volta nel 2008 con Barack Obama. Uniche eccezioni in una serie da Guinness dei primati fra le oltre tremila contee americane, le elezioni del 1908 e del 1956.

«Tutti questi sondaggi su chi vince le elezioni non servono a nulla», ride di gusto Norm Loudermilk, da cinque legislature consigliere comunale per il partito democratico a Terre Haute. «Basta capire chi vota la gente di Vigo e ci si risparmia i mal di testa».

La natura apparentemente rabdomantica della contea di Vigo è presto spiegata: qui vari settori economici sono rappresentati, dall’industria (c’è una fabbrica della Sony) all’agricoltura (prevalente nelle aree periferiche della contea), ai servizi, ovvero scuole (Università dell’Indiana, Saint Mary-of-the-Woods College, Rose-Hulman Institute of Technology) e ospedali. Questo mix produce un complesso mosaico di posizioni politiche, che vanno da quelle più progressiste dei giovani universitari a quelle più caute, e talvolta reazionarie, della popolazione più anziana.

«Di solito quando si vota a livello locale Terre Haute preferisce il partito democratico, la cittadinanza è attenta ai diritti sindacali dei lavoratori e ai diritti delle donne, benché molti in paese siano fortemente conservatori in senso fiscale» spiega Loudermilk. Ma quando si tratta di votare per le presidenziali, l’elettorato democratico e quello repubblicano sono grosso modo di pari portata, e l’ago della bilancia diviene il gruppo liquido e centrista degli indipendenti, i quali, a seconda delle tornate elettorali, oscillano a destra o a sinistra. I loro umori, per oltre un secolo, sono quasi sempre coincisi con quelli di tutto il Paese.

«Siamo una comunità di gente piuttosto attenta, pronta a cambiare visioni a seconda di quello che i presidenti effettivamente fanno, non restiamo fossilizzati su posizioni ideologiche» ci dice John Mullican, proprietario di una stamperia. «Il segreto del nostro primato è in fondo questo».

La contea, quattro ore a Sud di Chicago, prende il nome da Francesco Vigo, originario di Mondovì, un piemontese naturalizzato spagnolo arrivato qui a metà ‘700 e divenuto presto amico dei rivoluzionari americani guidati da George Washington. Nella contea oggi abitano 108mila persone, più della metà concentrate nel capoluogo, Terre Haute.

Prototipo della sonnacchiosa cittadina del Midwest americano, Terre Haute è costellata dalle note catene di fast-food, qualche trattoria specializzata in “colazioni da campioni” a base di uova strapazzate e pancakes, una manciata di bar per le bevute post-lavorative, le chiese protestanti e poi, verso la periferia, alcuni residence-motel. Ma una volta ogni quattro anni Terre Haute esce dalla routine e prende vita. In fila al supermercato, in banca, fuori dalle chiese e nei giardinetti la gente si lancia in letture politiche e pronostici. E questa volta il verdetto pre-elettorale di Vigo sembra favorire leggermente Obama.

«Romney sarebbe il chirurgo di cui abbiamo bisogno per la nostra economia? Ma se a metterla in ginocchio è stato George W. Bush, uno del suo partito, a forza di tagli alle tasse dei super-ricchi» borbotta Loudermilk. «Obama vincerà a mani basse, la gente non è fessa». Stessa impressione di Steve Rodriguez, barista a Coffee Grounds, un caffè del centro: secondo lui per Obama sarà una passeggiata.

Eppure, non tutti scommettono su un’affermazione a valanga del presidente: «Bah, per me è un testa a testa all’ultimo voto, nella nostra contea e nel Paese», ci confida Mullican. «Moltissime persone che conosco sono ancora incerte, forse decideranno lì per lì, nella cabina elettorale. Da Obama si aspettavano qualcosa in più, votando Romney non capiscono bene che cosa gli toccherebbe. La parola che descrive meglio i loro sentimenti è “frustrazione”». Sulla stessa lunghezza d’onda è Don Morris, anche lui consigliere comunale: «Sarà una partita estremamente equilibrata, come quella tra John F. Kennedy e Richard Nixon nel 1960, o tra George W. Bush e Al Gore nel 2000, ma alla fine credo prevarrà di un soffio Obama».

Parlando con la gente della cittadina, però, più che l’apprensione per la scelta presidenziale affiora il timore di rompere l’incantesimo, di incrinare il record di contea-termometro degli umori americani. «È una di quelle cose strane della vita» racconta pensoso Mullican, «accendi la televisione alla sera dell’Election Day, senti i risultati della contea, segui lo spoglio dei voti a livello nazionale e alla fine dici, toh, ci abbiamo preso di nuovo. È una bella sensazione. Spero che a questo giro non prendiamo un granchio». 

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