Il futuro della Grecia non è in mano ai greci. È in mano ai suoi creditori. Infatti la troika composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale detiene il 70% dei 340 miliardi di euro che rappresentano il debito greco. Su Atene ci sono due partite in corso: una che vede la Grecia impegnata a rinnovare un’economia in completo dissesto, una che vede i creditori internazionali impegnati a capire cosa fare del debito in loro possesso. Sullo sfondo, una paura mai svanita, ovvero l’uscita dall’eurozona.
La sofferenza greca continua. A tre anni di distanza dallo scoppio della crisi ellenica, e dopo una colossale ristrutturazione del debito sovrano, si va verso l’ennesimo stratagemma per tenere a galla il Paese. Nella notte è arrivata la decisione attesa da inizio settembre. L’Eurogruppo, l’assemblea dei ministri europei delle Finanze, ha dato il via libera informale a una proroga di due anni al secondo bailout. Contrario il Fondo monetario internazionale, che non vorrebbe modifiche al programma originale, ma spinge per un’altra ristrutturazione del debito. Se anche queste ci fossero, in effetti, non cambierebbe molto.
Il problema della Grecia non è nel breve termine, ma nel lungo. Come si può rendere sostenibile l’economia greca? L’ultimo rapporto della troika, sebbene giudicato positivo dal presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, vede un completo deragliamento dei conti pubblici. Il debito arriverà a superare il 190% del Pil nel prossimo anno. Il deficit di bilancio sarà risanato con almeno due anni di ritardo e il target di avere un surplus primario del 4,5% sarà raggiunto nel 2016 e non nel 2014 come previsto dal secondo programma di salvataggio. E nel frattempo si troveranno soluzioni ponte per traghettare il Paese nei prossimi anni. Non ci sono ancora cifre esatte. Secondo il rapporto della troika saranno necessari circa 33 miliardi di euro in più per coprire le esigenze finanziarie di Atene. Ma per Goldman Sachs ce ne vorranno almeno 80, ma fino al 2020. Ancora di più per Hsbc, che vede esigenze di circa 110 miliardi di euro fino al 2020.
Quello che stupisce è che ormai il debito pubblico è spacchettato presso le istituzioni che stanno sostenendo la Grecia da tre anni. Il calcolo lo ha fatto Goldman Sachs e rappresenta forse lo specchio migliore della situazione in cui versa la Grecia oggi. Su 340 miliardi di euro di debito, la quota maggiore è quella rappresentata dai prestiti erogati dallo European financial stability facility (Efsf), il fondo salva-Stati temporaneo da poco sostituito dallo European stability mechanism (Esm). Il 34% del debito ellenico è quindi da ricondurre ai due programmi di salvataggio, mentre il 18% è dato dai bond entrati nel Private sector involvement (Psi), ovvero la ristrutturazione del debito detenuto in mano dei creditori privati avvenuta nello scorso marzo. Poi ci sono i prestiti bilaterali, che valgono il 16%, e i bond acquistati dalla Bce tramite il Securities markets programme (Smp), circa il 13 per cento. Solo l’8% valgono i prestiti del Fmi ad Atene, mentre è ancora minore la quota di bond a breve termine, 4%, come gli altri prestiti arrivati. E poi c’è un 3% di altri bond ellenici. Il 70% del debito è in mano delle istituzioni internazionali e su questa base bisogna pensare.
Come spiega a Linkiesta un funzionario della Commissione europea «si stanno vagliando tutte le possibilità, nessuna esclusa». Questo significa che potrebbero arrivare almeno due soluzioni: l’Official sector involvement, ovvero la ristrutturazione del debito pubblico in mano ai creditori pubblici, e il buy-back del debito tramite lo Esm. Se la prima opzione è considerata troppo pericolosa, la seconda potrebbe non essere abbastanza. «Il problema della Grecia non è solo un problema di debito, ma di un’economia che sembra esser stata colpita da una guerra», continua il funzionario. È proprio questo il punto. Fintanto che non ci sarà un ritorno alla crescita, un incremento della produttività e della competitività, per Atene non ci sarà scampo. C’è poi la terza via, complementare alle prime due: l’escrow account, cioè un fondo ad hoc, gestito da terzi, dal quale gestire i prestiti internazionali e i proventi dell’esazione delle imposte. Questa è l’idea spinta dalla Germania, che vuole veicolare al meglio i fondi erogati in aiuto alla Grecia. Laconico il commento del funzionario: «Ci rendiamo conto che nemmeno questo potrebbe funzionare».
Sono diversi gli scenari previsti da Goldman Sachs nella sua ultima analisi sulla crisi ellenica. Ma si tratta solo di differenze temporali sul ritorno alla sostenibilità. È probabile che la troika chieda un’ulteriore accelerata nel processo di aggiustamento fiscale. In altre parole, nuovi tagli, nuova austerity. È necessaria per ridurre l’incredibile assorbimento di risorse finanziarie da parte del settore pubblico, ma rischia di catapultare i greci in una spirale mortale di austerity. Allo stesso tempo, tuttavia, bisogna rilanciare l’economia. Per Goldman Sachs ci vorranno circa 10 anni prima che la crisi greca sia considerata finita e il Pil sia tornato ai livelli del 2006. Ma è la terza soluzione quella che più preoccupa. Secondo la banca americana per bilanciare riforme strutturali e agevolare la crescita economica occorre che i prezzi calino del 25 per cento. Il problema è che la Grecia non ha potere sulla stampa di moneta, dato che è membro dell’eurozona. Servirebbe quindi che il governo centrale abbassasse i prezzi dei beni in modo forzoso. Una soluzione ritenuta difficile da attuare, a meno che la Grecia non uscisse dall’euro.
La secessione dall’euro non è però possibile. Il Trattato di Lisbona disciplina infatti l’uscita dall’Europa, non dalla moneta unica. Per agevolare questo processo, è possibile che avvenga una riforma dei trattati, che non è affatto un processo breve. Eppure, si sono prese delle misure che possono essere viste come uno smarcamento dalle canoniche dinamiche all’interno dell’eurozona. L’esempio è dato dalle banche greche. Oltre un anno fa è stato concesso l’utilizzo dell’Emergency liquidity assistance (Ela), un particolare meccanismo di prestiti assistenziali permesso dalla Bce. Con questa deroga allo statuto della Bce e ai trattati Ue, Atene ha potuto iniettare denaro nelle casse delle proprie banche assumendosi i rischi di queste operazioni, che prima erano in seno all’istituzione di Francoforte.
La dipendenza della Grecia dai finanziamenti esterni, sia tramite i creditori internazionali sia tramite l’Ela, è arrivata al massimo storico. È da circa un anno, secondo i calcoli di Standard Chartered, che i soldi pubblici hanno superato quelli privati. «Non possono continuare da soli, ma non possiamo permetterci nemmeno di lasciarli andare», dice a Linkiesta il funzionario della Commissione Ue. Ed è proprio per questo che, oltre ai due anni in più, arriveranno altre misure di sostentamento.