In Italia c’è chi ha vissuto le guerre balcaniche con distacco. Crescendo con la percezione che quel conflitto, pur geograficamente tanto vicino, sarebbe sempre rimasto militarmente lontano, inoffensivo. Un breve intermezzo nei titoli di testa di un telegiornale, nulla più. E c’è chi, invece, come Marco Cortesi e Mara Moschini, attori ed autori teatrali, ha sempre creduto che quella guerra non fosse soltanto storicamente importante, ma addirittura foriera di un messaggio universale.
Con questa premessa è nato “La scelta“, uno spettacolo che da oltre un anno sta raccontando agli italiani episodi terribili come il genocidio di Srebrenica, l’assedio di Sarajevo o la battaglia di Vukovar da un nuovo punto di vista, quello dell’umanità e della fratellanza: storie di cristiani, di musulmani e di ortodossi che hanno deciso di non arrendersi all’orrore, di darsi una mano a vicenda, di pregare assieme contro gli abissi della guerra.
Lo spettacolo, che sta dando origine ad un film-documentario in uscita nella prossima primavera, è tratto dal libro I giusti nel tempo del male. Testimonianze del conflitto bosniaco (Erickson, 2008), una raccolta di novanta racconti realizzata da Svetlana Broz, nipote dell’ex presidente della presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, Tito. Marco e Mara hanno scoperto il libro grazie ad Andrea Canevaro, pedagogista e docente dell’Università di Bologna. Va a lui il merito di aver “portato” in Italia un testo altrimenti frenato da evidenti barriere linguistiche.
Folgorati dalle storie raccolte da Svetlana – che ha viaggiato tra Bosnia, Serbia, Croazia e Montenegro per anni, registrando su nastro oltre diecimila contributi audio -, gli attori hanno scelto di mettere in scena quattro vicende rappresentative dell’intera storia. Oggi, «a dodici mesi esatti dalla prima replica», Linkiesta incontra Marco Cortesi, per scoprire qualcosa in più sul progetto, che ha ricevuto il patrocinio del Segretariato Sociale della Rai e di Amnesty International.
Perché parlare ancora del conflitto dei Balcani, dopo così tanti anni?
Abbiamo deciso di ricordare questa guerra proprio perché non la ricordiamo più. Eppure fu un conflitto spaventoso, ricco di record nefasti: la percentuale di vittime civili, il numero di morti italiani, il più lungo assedio della storia dell’umanità, 47 mesi. In più, tutti i fattori scatenanti della guerra sono presenti ancora oggi, nell’Europa della crisi. Ecco perché parlarne: perché si tratta di un periodo storico più attuale che mai.
Qual è il messaggio che “La scelta” vuole far arrivare agli spettatori?
Lo spettacolo parla di libertà e di legalità, utilizzando parole universali. Ci rivolgiamo al pubblico come fosse una lunga chiacchierata. A carte scoperte. Perché vi raccontiamo questa storia? Perché, come si dice, chi non ricorda il passato è condannato a riviverlo. Lo spettacolo parte da una domanda e arriva a una risposta, le quattro storie servono ad arrivare alla conclusione. In questo senso, il conflitto dei Balcani è un pretesto. Come il libro da cui è tratto, anche “La Scelta” parla di coraggio civile, dell’importanza di “fare la cosa giusta”. Potrebbe essere ambientato in qualsiasi guerra del mondo.
In un conflitto creato dalla politica e condotto dagli eserciti, quanto contarono le persone?
Moltissimo. La nostra scelta è sempre fondamentale, siamo più potenti di quello che crediamo. Tante volte diciamo: “C’è la guerra, c’è la crisi, come posso cambiare le cose da solo?”, oppure “Non posso farci niente se la gente muore di fame, se ascolto parole razziste, se alcuni paesi violano i diritti umani più basilari”. Il problema non è che non possiamo, è che non vogliamo. La decisione è nostra, spetta a noi fare qualcosa. È un invito alla responsabilità personale, un’esaltazione dell’importanza del coraggio civile.
Sul palco la scenografia è praticamente inesistente, voi siete vestiti di nero. Come mai?
Ci siamo resi conto che meno oggetti ci sono in scena, meno distrazioni offri allo spettatore, più la narrazione è potente. Così, in pratica, non c’è nessun filtro, solo la tua immaginazione, la tua fantasia. Questo minimalismo, che inizialmente pensavamo fosse un limite, si è rivelato l’arma più forte dello spettacolo. Quando raccontiamo la storia di un rapimento di una madre con gli occhi del figlio, ognuno può immedesimarsi al cento per cento. Non fornendo un’immagine descrittiva di quello che raccontiamo, lo spettacolo diventa più che 3D, diventa 5D. L’impatto è drasticamente più elevato.
Durante la presentazione a Trieste ci sono state anche delle contestazioni. Foste costretti a interrompere momentaneamente la rappresentazione. Come andò veramente?
A Trieste è stato davvero spaventoso. Qualche giorno prima, un blogger aveva scritto che lo spettacolo era incentrato sulla figura di Tito, una falsità. E ha ripescato una vecchia intervista, in cui Svetlana Broz si diceva orgogliosa di quanto fatto dal nonno. Lei, in realtà, si riferiva solo a quanto fatto da Tito in tempo di guerra, contro l’avanzata tedesca. Invece la frase è stata estrapolata e utilizzata fuori contesto, per distorcerne completamente il senso. Fatto sta che, dopo quindici minuti dall’inizio dello spettacolo, l’atrio dell’università venne invaso da una trentina di manifestanti: skinhead con croci celtiche e bandiere che facevano girare una foto con la facciata dell’Università ricoperta di croci insanguinate. Sono accorsi tutti: i carabinieri, il Rettore dell’università… i ragazzi che organizzavano la nostra performance, comprensibilmente, sono andati in crisi, perché non si aspettavano di dover fronteggiare una situazione di questo tipo. Dopo aver parlato con i manifestanti, li abbiamo invitati ad assistere allo spettacolo. La maggior parte ha accettato. Alla fine hanno applaudito insieme al resto del pubblico, si sono alzati e se ne sono andati via. É stata, anche quella, una magnifica vittoria dei diritti umani.