Le corna di Petraeus? Per coprire cosa accadde a Bengasi

Le corna di Petraeus? Per coprire cosa accadde a Bengasi

NEW YORK – Sotto le lenzuola del nuovo Sex-gate americano c’è una bomba a orologeria per il presidente Barack Obama: il pasticcio dello scorso 11 settembre a Bengasi, in cui persero la vita l’ambasciatore J. Christopher Stevens e altri tre americani.

L’ex direttore della Cia, il generale David Petraeus, recentemente travolto dallo scandalo della love story con la sua biografa, oggi ha dichiarato al Congresso che la Cia sapeva fin dall’inizio che gli attacchi di Bengasi erano di natura terroristica. Eppure in un primo tempo, il 16 settembre 2012, Susan Rice, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, disse che l’attacco al consolato Usa era scaturito da una manifestazione di protesta spontanea in risposta a un video anti-Islam comparso su YouTube. Solo giorni dopo era stato comunicato dall’amministrazione che a portare l’attacco è stato un gruppo di miliziani organizzati, e si è trattato di atto terroristico premeditato, in una ricorrenza, l’11 settembre, in cui le ambasciate statunitensi in tutto il mondo dovrebbero osservare un livello di sicurezza ancor più alto del solito.

Arrivato al Congresso questa mattina per la prima volta dopo il Sex-gate, Petraeus, adesso sotto inchiesta da parte della stessa agenzia di cui era direttore, ha sottolineato che la rivelazione sui fatti di Bengasi non è stata in alcun modo indotta dallo scandalo affiorato nei giorni scorsi.

E allora perché questa versione dei fatti di Bengasi non era emersa subito? Secondo il racconto del deputato Peter King (l’incontro con Petraeus al Congresso si è svolto a porte chiuse) il generale lo aveva scritto in un rapporto, ma quella riga in cui si diceva che per la Cia si trattava di un attacco terroristico è stata tolta dalla versione finale del documento circolato tra i vari esponenti dell’amministrazione Obama. Il che fa sospettare i detrattori del presidente: ritengono che l’entourage del presidente abbia in un primo tempo addomesticato la realtà per ridurre l’impatto negativo della tragedia terroristica di Bengasi sulla corsa elettorale.

Ma c’è dell’altro. All’indomani dell’uccisione di Stevens, la Casa Bianca inviò l’allora capo della Cia Petraeus, che già sapeva di essere sotto inchiesta dell’ Fbi, al Senato, per assumersi le responsabilità dell’accaduto alleggerendo quindi la posizione di Obama impegnato nella campagna elettorale. Obama ufficialmente saprà del triangolo amoroso di Petraeus solo un giorno dopo le elezioni vinte contro lo sfidante repubblicano Mitt Romney. Ma per molti osservatori, soprattutto di sponda repubblicana, questa versione non convince.

Sostengono che Obama fosse a conoscenza dell’inchiesta a carico di Petraeus e l’abbia usata per servirsi del pluridecorato generale come parafulmine. Si chiedono perché il capogruppo repubblicano alla Camera, Eric Cantor, sapesse della storia di corna di Petraeus già a fine ottobre (informato dall’agente dell’Fbi Frederick W. Humphries che temeva il caso venisse coperto per ragioni politiche) e invece il governo, che è il datore di lavoro dell’Fbi sia stato informato nella persona del presidente solo due giorni dopo le elezioni. Se nei prossimi giorni venisse dimostrato che Obama conosceva i fatti prima dell’8 novembre, per lui sarebbero guai: verrebbe accusato di aver anteposto le esigenze elettorali a quelle della sicurezza nazionale.

Giochi di palazzo a parte, il Petraeus-gate con il passare delle ore appare sempre meno un romanzetto rosa e sempre più un puzzle i cui tasselli chiave non vanno cercati tra i cuscini di generali gigioni, biografe d’assalto o prorompenti brunette, ma nelle ore convulse dell’attacco islamista a Bengasi, di cui – e questo si è appreso solamente oggi – la Cia conosceva la vera natura fin dall’inizio. E come hanno riferito a Linkiesta due diverse fonti – che hanno parlato chiedendo di restare anonime – il gossip potrebbe essere solo il fuoco di sbarramento per insabbiare questo scomodo evento, gestito molto male dall’amministrazione. Troppe cose non tornano ancora. Ad esempio, quello di Bengasi era un consolato, non un’ambasciata. E allora, se era un attacco organizzato e non spontaneo, come sapevano i terroristi che proprio quella proprio l’ambasciatore era li? Perché con tutte le forze speciali a portata di aereo che hanno gli Usa nel Mediterraneo, non fu mandato nessun rinforzo? Cosa non funzionò quella dannata notte e soprattutto perché la macchina dell’intelligence non fece il suo mestiere? Semplice incompetenza o c’è di peggio?

Un paio di giorni fa Obama nella prima conferenza stampa post-elettorale ha parlato del Petraeus-gate, ma è rimasto, come prevedibile, molto abbottonato. Ha espresso stima per l’ormai ex capo della Cia, dipingendolo come un grande leader che ha semplicemente commesso un errore nella vita privata e ha voluto dimettersi. Nessun accenno alla tempistica particolarmente favorevole al presidente di come si sono diffuse le informazioni. Nessun riferimento a Bengasi.

Per relegare la vicenda libica dietro le quinte, però, è difficile pensare a un intreccio più avvincente di quello tratteggiato dai fatti venuti alla luce negli ultimi giorni. Se fosse un film forse si aprirebbe con la panoramica di un party dove uomini in divisa e belle donne conversano nella megavilla con vista sulla baia di Tampa in Florida di una coppia di aspiranti vip della città. A fare gli onori di casa c’è la signora Jill Kelley, 37 anni, funzionaria del Dipartimento di Stato, ma soprattutto bruna avvenente di origini libanesi, una principessa della mondanità specializzata in seduzione e debiti da carte di credito. A queste feste “supercool” annaffiate di champagne, organizzate con il marito oncologo, si incontrano i generali più importanti impegnati nella lotta contro il terrorismo internazionale di stanza al Comando centrale di Tampa Bay. Tra loro a volte c’è anche il leggendario David Petraeus, poi divenuto direttore della Cia, e il generale dei marines John Allen, roccioso comandante di tutti i soldati occidentali in Afghanistan.

A un certo punto, la Kelley contatta l’Fbi perché sta ricevendo delle e-mail anonime da una persona che la disturba. Il caso finisce nelle mani di Frederick W. Humphries II, 47 anni, un agente di lungo corso, un tipo aggressivo come un bulldog (a detta dei colleghi), anche lui amico di famiglia della onnipresente Kelley. Dall’inchiesta che ne segue si scopre che la molestatrice è Paula Broadwell, 40 anni, giornalista e biografa di Petraeus. E frugando nella sua posta elettronica gli investigatori arrivano anche a scoperchiare la love story della Broadwell con Petraeus (nonché una corrispondenza fiume tra Kelley e l’altro generalone, Allen, definita di natura pepata).

Si vedrà forse nei prossimi giorni se i nomi dei generali Petraeus e Allen, sono davvero affiorati casualmente, o se i “government man”, avvertiti da Humphries, sapevano dove andare a parare. E soprattutto, in questa complessa storia, dovrebbe emergere qual è il vero peso della vicenda libica. Un peso che può travolgere la rielezione di Obama.