Lo svizzero Alberto Giacometti strega Buenos Aires

Lo svizzero Alberto Giacometti strega Buenos Aires

Qualche giorno fa, al museo Fundación Proa nel quartiere della Boca a Buenos Aires, la signora Véronique Wiesinger, curatrice e direttrice della Fondazione Alberto e Annette Giacometti, nata a Parigi nel 2003 per mano della vedova dell’artista e costituita dalla collezione privata della coppia, ha illustrato personalmente e dettagliatamente, durante la serata inaugurale, i 148 lavori dell’artista svizzero, eseguite tra il 1910 e il 1960. La maggioranza delle opere, che rimarranno esposte nel museo portegno fino al 9 Gennaio, appartengono principalmente alla collezione dell’artista, ma per la prima volta si possono ammirare pezzi appartenuti a collezionisti sudamericani.

Le dimensioni, la quantità, il peso e la logistica delle opere non sono state un problema per la fondazione argentina Proa, già esperta in mostre grandiose. L’anno scorso il gigantesco ragno di Louise Bourgeois è strato trasportato e installato proprio di fronte alla porta del museo, diventando un polo di attrazione per locali e turisti.

Consapevoli della qualità delle mostre che si esibiscono nello spettacolare museo della Boca, che corre lungo il caminito e spicca di fronte all’antico porto dove milioni di emigrati sono sbarcati in Argentina, gli amanti dell’arte non si sono fatti attendere. Centinaia di appassionati, curiosi, turisti, hanno popolato le quattro sale della modernissima Proa senza interruzione negli ultimi dieci giorni per vedere le famose statue di Alberto Giacometti, uno dei più grandi artisti del secolo XX.

«Giacometti era lo scultore dell’energia», ha esordito Véronique Wiesinger. «Diceva che una persona è molto di più di un involucro corporeo, e rilascia un’energia che è in perenne interazione con ciò che la circonda, ed era questo che Giacometti cercava di modellare nelle sue opere, dove tutto è ridotto alla sua minima espressione, privato di ciò che non è assolutamente necesario», ha spiegato Wiesinger in un francese cadenzato, di fronte ai busti di bronzo dell’artista.

L’energia vitale di Giacometti è rintracciabile nelle figure affusolate, scarne, che in maniera affilata indagano sull’essere umano e sulla realtà che lo circonda. Sculture, disegni, dipinti e oggetti decorativi esposti nelle enormi sale della fondazione Proa palesano così le diverse facce dell’artista. Giacometti cominciò a dipingere da bambino, come dimostrano alcuni ritratti giovanili inclusi nella mostra. Solo quando si trasferì a Parigi, nel 1922, si dedicó alla scultura, partecipando inizialmente al movimiento surrealista. Nella capitale francese, dove risiedette la maggior parte della sua vita, l’artista lavorò fino alla sua morte e la sua produzione tra il 1922 e il 1965 viaggió di pari passo ai grandi movimenti artistici moderni, come il cubismo, il surrealismo, ma senza mai venir meno al percorso indipendente che riuscì a tracciare con forza.

Le opere esposte mostrano la produzione del periodo svizzero dell’artista, agli albori della sua traiettoria, quando la sua formazione era legata a Cézanne, e all’arte africana degli anni Venti, arrivando fino ai più conosciuti studi di teste e ritratti, alle sue emblematiche figure femminili, ai personaggi che camminano degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta. È proprio durante questi anni che Giacometti sperimenta la scultura, la pittura, il disegno e l’arte decorativa, discipline che poi approfondirà durante la sua carriera fino a rivoluzionare i precetti della scultura, lasciando un’impronta definitiva nell’arte del ventesimo secolo.

Nella prima sala sono esposte le opere della gioventù e le prime sculture del periodo parigino (1922-1928). Il suo primo dipinto ad olio, Natura morta con mele, realizzato in Svizzera quando l’artista aveva 14 anni, nell’atelier di suo padre Giovanni, pittore impressionista, è esposto insieme al suo primo busto scolpito nel gesso, la piccola Testa di Diego con base, del 1914-1915. Il fratello Diego fu sempre uno dei suoi soggetti preferiti, insieme alla moglie Annette e al padre, persona che svolse un ruolo cruciale nella formazione di Giacometti.

Quando l’artista si trasferì a Parigi, per studiare all’Accademia de la Grande-Chaumière, dove seguì anche gli insegnamenti di Antoine Bourdelle, cominciò a interessarsi al disegno di nudi e alle prime sculture cubiste, ben riconoscibili nelle composizioni in bronzo esposte nella prima sala, che insieme alla scultura in gesso Donna cucchiaio e a quella in bronzo La coppia, mostrano l’interesse di Giacometti verso l’arte africana. L’arte non occidentale ebbe sempre un’influenza notevole nella produzione dell’artista, in quanto gli permise di allontanarsi dalle regole della rappresentazione naturalistica e accademica per cercare invece una visione esoterica, a volte magica, della figura umana.

Nel percorrere la mostra ci si trova inevitabilmente davanti all’interrogativo “Che cos’è una testa?”, tema centrale della ricerca di Giacometti durante tutta la sua opera, che gli costò l’espulsione dal movimento surrealista di Andrea Breton, e che ben si esplicita nelle numerose teste, in gesso e in legno come la Testa della madre, la Testa del padre, la Testa di donna, ma anche piccoli busti, incluso quello di sua moglie Annette, in gesso dipinto, che si trovano nella seconda sala.

I procedimenti surrealisti continuano a giocare un ruolo importante nell’opera di Giacometti anche dopo l’espulsione dal movimento. La Donna che cammina del 1932, concepita come manichino per un’importante esposizione surrealista, e La sfera sospesa del 1965, in gesso e metallo, creata per una mostra a Londra, mostrano il forte vincolo di Giacometti con il movimento.

Accanto a queste opere consacrate, si trovano pezzi d’arte decorativi che mostrano l’interesse di Giacometti per gli oggetti della società antica o primitiva che tanto ammirava e che sarà fonte d’ispirazione per le sue creazioni. Vasi, bassorilievi, lampade, camini, apliques, sono oggetti che dagli anni Trenta, grazie alla collaborazione con il noto decoratore parigino Jean-Michel Frank, l’artista comincerà a realizzare e poi vendere a collezionisti sudamericani.

Ma la mostra di Giacometti seduce particolarmente gli argentini quando ritrovano nella sua opera alcune affinità con il loro paese. Nel 1939 Giacometti ebbe l’incarico da un famoso collezionista argentino, Jorge Born, che gli commissionò il disegno di alcuni elementi decorativi. Molte stampe mostrano i modelli di camini, bassorilievi, mensole, lampade, specchi, vasi, tavoli, sedie disegnati dall’artista per la famiglia Born. A Giacometti piacevano gli oggetti funzionali, consapevole che nelle culture primitive l’arte aveva una funzione sociale. 

Secondo un’investigazione effettuata dalla ricercatrice Cecilia Braschi, Alberto Giacometti non conosceva l’Argentina e non aveva mai viaggiato in Sudamerica, ma molti collezionisti argentini e brasiliani che lo conobbero, comprarono le sue opere all’inizio della sua brillante traiettoria artistica, ancora prima che la sua fama diventasse mondiale. «Non amava viaggiare; la sua filosofía era che tutto è meraviglioso se uno si prende il tempo di analizzarlo, e allora il quotidiano si trasforma in straordinario», ha spiegato Wiesinger.

Ad ogni modo, gli artisti attivi a Parigi negli anni Trenta, non avevano bisogno di viaggiare per prendere contatto con i collezionisti latinoamericani. Una delle prime collezioniste di Giacometti risulta essere stata proprio un’argentina: la giovane Elvira Alvear. Poetessa e scrittrice, Elvira era la nipote del famoso generale Carlos María, di cui Antoine Bourdelle scolpì il monumento che oggi domina l’elegante quartiere della Recoleta a Buenos Aires. «Negli anni Trenta, ci sono testimonianze che attestano che Elvira de Alvear, una delle amate muse di Borges, compró a Parigi la scultura Testa che guarda, una figura di gesso del 1929», assicura Véronique Wiesinger.

Intanto, attenta alle spiegazioni della curatrice, per le stanze della Fondazione Proa si aggira un’anziana elegantissima signora. Si presenta come Matilde Born, moglie di quel Jorge Born per cui Giacometti realizzò mobili e oggetti di decorazione per la residenza di San Isidro, che la coppia di collezionisti aveva progettato a fine degli anni Treanta. Fu l’amicizia con Jean-Michel Frank, a permettere a Giacometti di conoscere la famiglia Born a Parigi, e da questa collaborazione con Frank nacque di conseguenza una relazione tra Giacometti e il collezionismo sudamericano.

Jean-Michel Frank, di origine ebrea, dopo essere riuscito a scappare dall’occupazione nazista e dalle leggi raziali, arrivò a Buenos Aires nel 1940. Frank, intuendo le potenzialità di una collaborazione con Giacometti orientata verso i collezionisti d’oltreoceano, lo invitò ad andare con lui, ma l’artista non accettò. Certamente, è grazie alla loro relazione se molti mobili, lampade e oggetti di decorazione realizzati dall’artista, sono parte di prestigiose collezioni argentine. Secondo una ricerca del quotidiano La Nacion, nell’archivio del giornale sono state ritrovate fotografie del 1941 in cui si riconoscono lampade di Giacometti che decorano le case di alcune famiglie argentine.

Nel 1965, i Born visitarono l’ultima volta Giacometti nel suo atelier parigino, ma la sua morte, avvenuta nel 1966, non gli permise portare a termine l’incarico. «Anche dopo la guerra Giacometti continuò a creare oggetti», spiega Veronique Wiesinger davanti a una lampada del 1950 e a un’immagine della porta funeraria per una tomba realizzata per la famiglia Kaufann in Pensilvania. «In questi oggetti Giacometti traccia un sistema di equivalenze tra la figura umana e la natura: come l’albero, anche l’essere umano è prigioniero in un ciclo perenne di crescita e morte», dice la curatirce e prosegue verso la sala successiva, dove è percepibile lo scambio intellettuale dell’artista con Jean-Paul Sartre e la forma di delimitare lo spazio onirico di rappresentazione. Figure umane, busti dipinti e scolpiti cercano di captare e trasmettere la vita che palpita nel corpo e non la sua psicologia. 

Degne di nota, infine, le figure in scala del monumento incaricato a Giacometti per il Chase Manhattan Bank di New York. Véronique Wiesinger ha definito Giacometti l’artista più astratto dei figurativi per l’importanza che le sue opere evocano piuttosto che la loro evidenza, secondo la quale la prospettiva è ingannevole. «La forma è solo una scusa per accedere all’anima e ognuno vede nell’opera ciò che vuole vedere; il desiderio di Giacometti è scolpire in un solo essere umano tutti gli esseri umani». Di fatto, la retrospettiva di Alberto Giacometti a Buenos Aires, racconta una storia che, per diverse coincidenze umane, avvicina le opere di un artista a un popolo a lui sconosciuto, ma certamente affine.

Oltre a Giacometti, la primavera artistica di Buenos Aires, che già convive da qualche mese con le opere di Rubens, Tiziano e Raffaello esposte al Museo de Arte Decorativo, e le installazioni di Boltanski al Museo de los Imigrantes, continua con una mostra sul Caravaggio al Museo Nacional de Bellas Artes.

L’uomo che cammina