Una sfida culturale promossa contro l’universo politico, sindacale, imprenditoriale italiano, del tutto incapace di comprendere il mercato globale in cui oggi viviamo. Un’offensiva mirante a rovesciare i paradigmi che per decenni hanno guidato le relazioni industriali nel nostro paese. Al punto di voler affermare il primato assoluto delle autonome strategie aziendali sui provvedimenti della magistratura, che avevano stabilito il reintegro nella fabbrica di Pomigliano di 19 lavoratori aderenti alla Fiom. L’iniziativa intrapresa dall’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, criticata aspramente da gran parte del mondo istituzionale e denunciata con forza da autorevoli organizzazioni sindacali nonché da rappresentanti di Viale Astronomia, presenta un’indubbia capacità di rompere e scompaginare certezze, prassi, metodi consolidati. Esorta a riflettere seriamente sulla validità di dinamiche sociali e sull’attualità di regole giuridiche risalenti a oltre quarant’anni fa. Interpella nel profondo l’identità e la ragion d’essere di una sinistra con ambizioni di governo, vicina al ritorno a Palazzo Chigi in un’alleanza con quel Nichi Vendola che proprio oggi torna a deprecare “l’esperienza fallimentare e perdente” del New Labour di Tony Blair. A offrire una lettura disincantata e realistica sulle implicazioni politiche sollevate dalle decisioni del manager italo-canadese è il filosofo, già primo cittadino di Venezia, Massimo Cacciari.
La scelta adottata dall’ad del Lingotto per dare seguito al provvedimento dei giudici del lavoro è stata accolta da un coro vasto e trasversale di proteste, all’insegna di parole come “ritorsione” e “rappresaglia”. Condivide il tenore delle reazioni prevalenti?
Polemizzare con Marchionne è come piangere sul latte versato. La ragione profonda delle problematiche che oggi sono venute alla luce è nella storica mancanza di una autentica politica industriale. Politica che non equivalesse al sostegno diretto in favore dell’azienda torinese da parte delle istituzioni pubbliche. Lo Stato prima ha assicurato alla Fiat l’assoluto monopolio nazionale nel settore automobilistico, arrivando a regalargli marchi come Lancia e Alfa Romeo. E poi ha destinato al Lingotto un flusso enorme di finanziamenti, agevolazioni, interventi ad hoc, privilegi. Gran parte di coloro che adesso tuonano contro le strategie del manager per decenni hanno taciuto di fronte a tali scelte politiche, accettandole, invocandole, approvandole.
La persuade il modello di relazioni industriali di impronta “americana” messo in pratica dall’amministratore delegato della Fiat?
Non c’è nessun “modello Marchionne” e non ci troviamo davanti a nulla di originale né di trascendentale nel suo modo di agire. Si tratta di un manager che opera per costruire e rafforzare un’azienda globale a tutti gli effetti, a proiettarla lì dove le condizioni produttive e lavorative appaiono migliori. Si muove nella logica imprenditoriale della ricerca degli investimenti più convenienti, soprattutto partendo dalla realtà di un mercato automobilistico in piena crisi come quello europeo, dove la richiesta di macchine è di gran lunga più bassa rispetto alla capacità di offerta. Il mondo in cui viviamo oggi non è più lo stesso dell’epoca in cui la Fiat venne creata o nel quale rappresentò un traino fondamentale per la rinascita economica del nostro paese. Ma nessuno ne ha preso coscienza, tantomeno i politici, tranne Sergio Marchionne.
Molti suoi critici lo accusano di avere messo in atto una strategia ritorsiva e vendicativa contro gli operai iscritti alla Fiom.
Ma quali ritorsioni! L’ad del Lingotto sta solo ricercando, attraverso provocazioni più o meno felici, l’occasione per abbandonare l’Italia come cuore strategico e cervello di un’impresa automobilistica internazionale con molteplici centri nevralgici.
Autorevoli esponenti del mondo imprenditoriale italiano, e la stessa Confindustria, hanno da tempo puntato il dito contro “il disimpegno dall’Italia” realizzato dal manager del Lingotto.
L’organizzazione ufficiale degli industriali è solo un ferro vecchio, una struttura centralista sorda alle esigenze economiche dei territori e da sempre sensibile alle relazioni con il potere politico. E Marchionne ha fatto benissimo a rompere ogni rapporto tra Fiat e Viale dell’Astronomia. Che al pari della Fiom vuole conservare un monopolio della rappresentanza sociale e meccanismi contrattuali ormai obsoleti e inadeguati alle dinamiche produttive attuali.
La profonda riforma delle relazioni industriali e degli accordi lavorativi è uno dei temi al centro dell’agenda di un possibile governo progressista in Italia. Ma uno dei suoi potenziali protagonisti, Nichi Vendola, torna ad attaccare le politiche di Tony Blair, che per anni è stato un alfiere del riformismo economico-sociale.
Vendola chiacchiera molto perché è in piena campagna elettorale per le elezioni primarie nel centro-sinistra. Tuttavia ha governato per due volte la Puglia da buon democristiano. E sono certo che, grazie all’intelligente mediazione di Pier Luigi Bersani o di altri esponenti del Partito democratico, potrà giungere a un’alleanza con i centristi di Pier Ferdinando Casini. Solo che in un paese in piena decadenza come il nostro, riforme strutturali e innovative di sinistra riformista blairiana e clintoniana, improntate alla promozione dello sviluppo e dell’educazione come carta di emancipazione sociale, sono impensabili. Un ampio schieramento composto da progressisti e moderati si limiterà a proseguire l’azione di risanamento dei conti pubblici promossa dall’esecutivo Monti, e a correggerla con una leggera riduzione del peso fiscale sul lavoro.
E se alle primarie del centro-sinistra dovesse vincere Matteo Renzi?
Non muterebbe granché. A parte un maggiore ricambio generazionale nella classe dirigente del Pd. Renzi e Bersani non sono Blair: non ne hanno il coraggio né il carisma. E soprattutto non possono contare su una realtà partitica radicata e secolare come avviene nel Regno Unito, sulla dinamica tra poche grandi formazioni come il Labour e i Tory prodotta da antichissime e consolidate regole elettorali e prassi istituzionali. Che permettono e incoraggiano l’ascesa di leader in grado di incidere profondamente e lasciare un’impronta storica del loro operato.