Non solo Marzotto, la frode fiscale è un classico del nostro capitalismo

Non solo Marzotto, la frode fiscale è un classico del nostro capitalismo

Stavolta è toccato ai Marzotto. La Guardia di Finanza, su richiesta dei pm milanesi Laura Pedio e Gaetano Ruta, ha sequestrato immobili, tra cui una villa a Cortina e appartamenti a Roma, Milano e un villa a Trissino (VI), appartenenti alla famiglia Marzotto e Donà dalle Rose, iscrivendo nel registro degli indagati tredici persone, tra cui Matteo e Massimo Caputi, ex azionista di Valentino ed ex numero uno di Idea Fimit, per il reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. 

Le indagini ruotano intorno alla cessione – da parte della holding di famiglia Icg, domiciliata in Lussemburgo – della maggioranza delle quote nella maison Valentino al fondo Permira. Operazione che risale al 2007, grazie alla quale la famiglia ha realizzato una plusvalenza di 200 milioni di euro, su cui non sarebbe stato versato alcun contributo al fisco italiano, pari a 65 milioni di euro. Secondo le Fiamme Gialle, la testa operativa della holding lussemburghese sarebbe nei fatti in Italia, e dunque i Marzotto avrebbero dovuto dichiarare tutto all’Agenzia delle Entrate. Per la cronaca, Permira ha poi rivenduto la scorsa estate la casa fondata da Valentino Garavani per 700 milioni di euro a Mayholla, fondo d’investimento riconducibile alla famiglia del Qatar.

A sei mesi di distanza dalla riapertura del processo che vede imputati gli stilisti Stefano Dolce e Domenico Gabbana per il reato di evasione fiscale, finisce dunque sotto inchiesta un’altra famiglia storica della moda italiana. Non è la prima volta e non sarà l’ultima: spesso entro i confini del piccolo Stato incastonato tra Belgio, Francia e Germania sono state parcheggiate da società e istituti di credito somme distratte al fisco italiano. Basti pensare all’operazione Brontos, che coinvolge la banca UniCredit, o andando più indietro nel tempo la Bell, la scatola finanziaria costruita da Emilio Gnutti per scalare la Telecom un anno prima del duemila. Per le holding estere tutto fila liscio fino al 2006, quando il decreto Bersani numero 223 cambia le carte in tavola, invertendo l’onere della prova per le subholding estere e introducendo la «presunzione di residenza in Italia di una società estera che direttamente controlla una società italiana».

Sebbene l’esterovestizione non c’entra molto con l’alta moda, sono i protagonisti delle passerelle ad approfittarne. Circa due anni fa, il 15 ottobre 2010 – a conclusione di una maxi indagine partita nel 2007 – la Procura di Milano formula un’accusa pesante nei confronti di D&G: truffa ai danni dello Stato e dichiarazione dei redditi infedele, per una cifra che tocca gli 840 milioni di euro d’imponibile. Il vaso di Pandora comincia a scoperchiarsi il 21 febbraio 2008, quando il Tribunale di Milano condanna la Sto.Tex Srl a pagare una multa di un milione e 940 mila euro, dopo un anno di indagini.

L’azienda, controllata all’80% dalla Dolce&Gabbana Industria Spa – capofila della Dolce & Gabbana Holding – è un grossista: acquista i capi D&G per poi rivenderli a una rete di distributori sparsi sul territorio, salvo non registrare 126mila prodotti sui libri contabili relativi al 2002. Una sottofatturazione dal valore di 2,4 milioni di euro. Non solo: il prezzo pagato per il trasferimento in Lussemburgo dei diritti di sfruttamento dei brand fu allora valutato dall’Agenzia delle Entrate circa 700 milioni di euro, il doppio dei 360 milioni attestati da una perizia di PwC. Anche in questo caso, la sottostima avrebbe provocato un ulteriore risparmio sull’imponibile da versare al Fisco, derivante dalle royalties. Dopo che la Cassazione ha fatto decadere il reato di truffa ai danni dello Stato, ma annullando il proscioglimento dei due stilisti in relazione al reato di dichiarazione infedele, il processo a D&G continua. Ovviamente anche in questo caso, come in quello di Marzotto, si tratta di accuse che dovranno essere provate nei tre gradi di giudizio. 

Più complicato il caso di Brontos. Il primo agosto scorso Piazza Cordusio ha versato all’Agenzia delle Entrate 264,4 milioni di euro, chiudendo la controversia amministrativa, ma l’inchiesta penale è ancora in corso e vede, tra gli indagati, anche l’attuale presidente di Mps Alessandro Profumo (uno dei circa 80 soci de Linkiesta), con l’accusa di frode fiscale. Secondo l’ipotesi della Procura di Milano, Unicredit e Barclays, tra il 2007 e il 2009 – tramite operazioni di finanza strutturata finalizzate a mascherare gli utili sotto forma di dividendi per avere un trattamento fiscale più favorevole, e realizzate attraverso società lussemburghesi riconducibili alla banca inglese – avrebbero evaso il fisco per 245 milioni di euro. A fine settembre la Cassazione ha disposto il dissequestro della somma, dopo l’accordo raggiunto con l’ente guidato da Attilio Befera, mentre la prossima udienza del processo sarà il 23 novembre, quando il giudice dovrà pronunciarsi sul trasferimento del dibattimento a Roma, chiesto dalle difese alla prima udienza dello scorso ottobre. 

È andata decisamente meglio alla holding Bell di Emilio Gnutti e Giovanni Consorte, strumento prima della scalata alla Olivetti e dell’arrembaggio fallito alla Telecom poi. Con la vendita di Olivetti nel 2001 la Bell realizza una plusvalenza di 3 miliardi di euro, ma non versa nemmeno uno spicciolo al fisco italiano. Due anni dopo la Procura di Milano apre un’inchiesta per evasione fiscale, sostenendo – anche in questo caso – che le decisioni strategiche della società fossero in realtà decise nel capoluogo lombardo, presso lo studio legale Freshfields. Un anno prima si era mossa l’Agenzia delle Entrate, chiedendo alla Consob tutti i documenti dell’Opa su Olivetti. L’azione della procura, tuttavia, si concluse con un nulla di fatto: la testa pensante della holding non era a Milano ma a qualche centinaio di chilometri più in là, a Lugano. Il tutto, ironia della sorte, per merito della consulenza dello studio Vitali Romagnoli Piccardi, di cui fa parte anche l’ex ministro Giulio Tremonti dopo le due parentesi da titolare del dicastero di via XX Settembre. Il medesimo studio che aveva dato il via libera all’operazione Brontos.