Ho letto l’articolo di Danilo De Biasio, ma non mi ha convinto. Provo a spiegare. Per un giornalista la regola fondamentale è raccontare i fatti che vede sapendo che non tutto ciò che vede rappresenta la realtà tutta intera. Voglio dire che il racconto e l’interpretazione sono l’anima del giornalismo e devono procedere assieme. La lealtà verso il lettore e se stessi sta nel dichiarare la propria cultura, la propria visione, le proprie passioni così da mettere chi legge, e ascolta, nelle condizioni di valutare criticamente lo scritto o la parola detta. Nel caso del conflitto israeliano-palestinese ciò è ancora più importante perché quel conflitto rimanda a letture del mondo che si contrappongono da anni.
Molti, e anche Jacopo Tondelli e questo giornale, lamentano l’ingresso in campo delle solite squadre con le magliette bene incollate sulla pelle e invocano una lettura meno schematica e più aperta alle ragioni degli altri, cioè di coloro che la pensano diversamente da noi. È un atteggiamento giusto ma non si può negare che è illusorio impedire di leggere quel che accade sulla base delle proprie convinzioni. Sono persuaso che vi sia un diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato, ma non posso negare che considero fondamentale la difesa di Israele. Nelle discussioni che si stanno svolgendo quel che mi intriga maggiormente è la posizione di chi si batte per la pace e per la democrazia ma ignora ostinatamente quanto sia l’una sia l’altra siano negate dalla parte arabo-palestinese. È singolare questa critica severa verso Israele accompagnata dalla indulgenza verso movimenti politici arabo-palestinesi che non vogliono la pace, che fanno della distruzione di Israele la loro bandiera e che accettano precetti autoritari, omofobi e ostili alle donne.
Porre queste questioni è chiedere troppo, è eludere il problema, è indulgere in filo-sionismo? Non lo penso, è invece la sollecitazione ad aiutare davvero la causa palestinese senza incorrere in errori di interpretazione, in omissioni politiche, in relativismo etico. Vengo da una generazione che fece della guerra alla guerra del Vietnam la propria bandiera e anche la propria palestra di virtù civili. Se avessimo saputo o capito che quella battaglia per l’indipendenza di un popolo si sarebbe tradotta negli anni successivi in regimi autoritari, liberticidi e violenti forse avremmo affrontato quel tornante della storia del mondo in modo diverso. Non si può, è questo che voglio dire, ignorare l’obiettivo di movimenti la cui causa si vuole sostenere. Nel caso di Israele al netto degli errori e delle cose che si possono non condividere è indubitabile che siamo di fronte a un mondo in cui è possibile, e in qualche caso, parlo per me e per la mia famiglia, desiderabile vivere.
Voglio dire che gli inviti ad evitare settarismi non possono essere indulgenti in tema di democrazia e di tolleranza. Conosco persone che sono andate con le loro famiglie in Paesi arabi per lunghi periodi e che si sono dovute attrezzare culturalmente a sopportare divieti e regole di comportamento che non sono venute in mente a chi abbia dovuto invece recarsi in Israele. Questo non conta? Non conta il progetto di un movimento che si dichiara di liberazione e che è assassino dei suoi simili, omofobo e anti-femminile per riconsiderare criticamente l’eventuale appoggio alla sua causa? So ben che visto nella prospettiva lunga, sia rivolta al passato sia al futuro, il mondo arabo presenta molte risorse inesplorate o ignorate. Ma non si può non restare disincantati e ostili verso movimenti e regimi che propongono modelli che nel nostro paese combatteremmo.
C’è tutto il dibattito che nel dopoguerra coinvolse grandi intellettuali attorno alla responsabilità di chi sostenne la causa del comunismo e dell’Urss sottovalutando quel che lì accadeva a dirci che dobbiamo stare in guardia dalle cause che non abbiano nel proprio bagaglio regole democratiche e di tolleranza civile e religiosa. Israele, a sua volta, richiama alla mente suggestioni culturali e politiche diverse. Anche intellettuali ebrei di sinistra come il compianto Tony Judt hanno raccontato la propria separazione dall’ideale sionista. Il dibattito è aperto da anni e anni. Ma siamo di fronte un caleidoscopio di culture che hanno permeato la storia di tanti Paesi e che oggi in modo plurale e contendibile si rispecchiano nella vita pubblica israeliana. È anche per questo che a me l’idea che vi sia chi non vuole fare sentire la sua voce per difendere il diritto all’esistenza di questo Stato e alla pace di questo popolo fa ancora molta, cattiva, impressione. Oggi questi stessi ci chiedono di testimoniare la nostra vicinanza verso la gente di Gaza. Si può fare ma si deve chiedere alla gente di Gaza che la colpa della loro condizione è dei loro leader guerrafondai, intolleranti e ostili a ogni progetto di pace. Su questo non si può essere equidistanti.