Portineria MilanoUno bianca e evasioni eccellenti, i misteri del rapitore di Spinelli

Uno bianca e evasioni eccellenti, i misteri del rapitore di Spinelli

BARI/MILANO – Avrebbe diverse cose da raccontare ai magistrati Francesco Leone, il capo della banda che ha sequestrato il 15 ottobre scorso Giuseppe Spinelli, il cassiere della famiglia Berlusconi. Non solo sulla notte dei misteri, tra soldi falsi di un riscatto che «non ci sarebbe stato», un dvd di sette ore e mezzo scomparso e un misterioso «settimo uomo» che avrebbe collaborato al sequestro di «Spinaus». Fino adesso, però, Ciccio U’uastat, 51 anni, di Bari, ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere di fronte al Gip. E con il pm Ilda Boccassini in tribunale si è sbottonato per appena mezz’ora (ma il verbale è secretato), promettendo nuove collaborazioni in futuro.

Eppure sono tanti i misteri che avvolgono questo «matto» dalle scarpe rosso e nere, che in realtà appare un esperto in sequestri lampo e rapine in banca. Non solo per il continuo entrare e uscire dalle carceri di mezza Italia o per condanne troppo blande che gli vengono comminate, come la stessa Boccassini ha fatto presente ai suoi colleghi romani e come ha raccontato il Corriere della Sera. Ma per tutto un mondo che in questi anni gli è girato intorno, da collaboratore di giustizia, ma pure per una certa vicinanza a personaggi che poi finiranno invischiati in vicende legate alle forze dell’ordine o ai servizi segreti del Sisde.

Leone, per esempio, potrebbe cominciare il suo racconto da un episodio che forse gli cambiò la vita più di venti anni fa. Bisogna andare indietro nel tempo e tornare a una tiepida notte del 16 febbraio del 1993. Siamo in Puglia, a Turi, nel carcere di massima sicurezza, già noto alla storia perché qui ci finirono in altri tempi e (in ben altri contesti) pure due pezzi da novanta della politica italiana, come Antonio Gramsci e Sandro Pertini. Il carcere è in alte cinta di pietra costruito all’ingresso della città nel 1850 come convento da destinare alle Clarisse, da queste mai utilizzato perché passato al demanio nel 1880 con l’Unità d’Italia. 

Quella sera del 16 febbraio due ragazzi di trent’anni, da qualche mese finiti in gattabuia, chiedono ai secondini di fare due chiacchiere nel corridoio. Nel pianoterra della struttura dove erano rinchiusi i due detenuti non ci sono mai state finestre, risulterebbe soltanto una botola sbarrata da muri da cui nel dopoguerra veniva calata la legna per il riscaldamento. Da quelle parti, ricordano le cronache, chiamano queste pause «momenti di socialità». Quei due giovani sono proprio Leone – all’epoca dietro le sbarre per una rapina nella Banca di Puglia dove provò a depistare le indagini con presunti collegamenti con le Brigate Rosse – , e Carlo Aleardi, ex poliziotto accusato di concorso esterno in omicidio e coinvolto in una strana vicenda di agenti a libro paga della Sacra Corona Unita.

A Bari sostengono che Turi sia una fortezza inespugnabile. Eppure i due ci mettono un attimo a uscire da un «cancelletto» del carcere che risulterà magicamente aperto. Nessuno li vede. Neppure i passanti che a quell’ora sono in giro per le strade di questa cittadina a 40 chilometri da Bari. I secondini si accorgono dopo 15 minuti della loro assenza: è la prima e unica fuga che si ricordi nella storia della «fortezza» di Turi.

I due spariscono per qualche giorno. Non è chiaro cosa facciano e chi incontrino. Sta di fatto che nemmeno due giorni dopo Aleardi si costituisce. Sul destino di Leone invece si sa poco niente. Ricompare di nuovo nelle cronache giudiziarie nel 1996 quando decide di diventare collaboratore di giustizia e raccontare nel dettaglio tutto il sistema della Sacra Corona Autonoma di Bari.

I due fuggiaschi non hanno in comune solo una fuga dal carcere di Turi, ma pure il fatto di essere due pentiti d’eccezione. Di Leone si è già detto per le sue rivelazioni sulla mafia pugliese come ha scritto anche l’attuale sindaco di Bari (ex magistrato) Michele Emiliano, mentre su Aleardi si sa ancora poco. Eppure questo ex poliziotto ora scomparso nel nulla, fu definito negli anni ’90 uno dei primi esponenti delle forze dell’ordine che si mise a collaborare con la magistratura per raccontare delle infiltrazioni mafiose nelle istituzioni.

Furono le sue accuse a incastrare Antonio Carrozzo, ex sovrintendente della polizia barese, un Rambo che su Giustizia Giusta, blog dei Radicali di Mauro Mellini, qualcuno ha paragonato a Bruno Contrada, ex Sisde, poi finito sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Aleardi, infatti, in carcere ci finì perché, secondo l’accusa, fu l’autista che portò Carrozzo a prelevare due giovani baresi, Maurizio Manzari, di 20 anni e Domenico Casadibari di 23 anni, legati al clan Diomede. Il motivo, all’apparenza, era un semplice controllo di routine, ma poi i due furono giustiziati da una banda rivale in aperta campagna.

Carrozzo si è sempre difeso da queste accuse. E ha proclamato per più di vent’anni la sua innocenza persino con un blog che ora però è scomparso dalla rete. Di una testimonianza di Carrozzo, però, abbiamo una traccia su Radio Radicale, nel processo per la Uno Bianca a Bologna. Caso vuole che proprio Carrozzo a metà degli anni ’90, era finito nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere insieme ad Alberto Savi, il più giovane della banda.

Fu lui a raccontare al processo di Bologna che Roberto Savi, ex poliziotto e poi capo della Uno Bianca, vantava protezioni nel Sisde, i servizi segreti italiani. Fu sempre Carrozzo a parlare di Mario Fabbri, il caporeparto del Sisde arrestato nel 1993, che compare in diversi misteri d’Italia, sia per i legami con Danilo Abbruciati della banda della Magliana, sia per l’omicidio di Mino Pecorelli, direttore di Op, sia per casi di depistaggio sulle Brigate Rosse negli anni ’80.

Un giro molto strano che aggiunge altri misteri a una matassa che solo i magistrati milanesi possono dipanare, a partire dagli interrogatori dei prossimi giorni. A cominciare dallo stesso Leone, ma pure dal suo sodale Alessio Maier, che, a quanto riferito dal suo avvocato, potrebbe fornire un’altra versione su quella notte in casa Spinelli. L’ennesima, dopo che si è già parlato di presunti ricatti e persino un collegamento con le escort di Bari che fecero tremare Berlusconi sul caso Bunga Bunga: proprio oggi la procura barese si è affrettata a definire questi collegamenti “inesistenti” perché il presunto capobanda del sequestro Spinelli, dopo essere divenuto collaboratore di giustizia e aver fatto arrestare con le sue dichiarazioni molti malavitosi, è stato espulso dai clan mafiosi baresi con i quali non avrebbe più alcun rapporto da circa 15 anni. E il mistero, assieme alla coltre di nebbia che circonda questa storia, diventano sempre più fitti. 

(ha collaborato Francesco Clemente)

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