2012, l’anno in cui il Fondo monetario chiese scusa

2012, l’anno in cui il Fondo monetario chiese scusa

Un anno per prendere tempo. Un anno per garantire all’euro un futuro. Un anno per sopravvivere alla tempesta più grande. Il 2012 dell’eurozona è stato questo. Un anno che è iniziato nel peggiore dei modi, con il default ordinato della Grecia, e continuato con la più completa frammentazione dei mercati finanziari nell’area euro. E sarebbe finito in modo ancora più devastante, se non fosse intervenuta la Banca centrale europea di Mario Draghi. A fine luglio, grazie all’Eurotower, il tempo viene fermato per permettere alla politica di fare il suo percorso. In altre parole, per sanare le divisioni fra i Paesi. Il requiem dell’euro non è ancora stato suonato.

Per la prima volta nella storia, l’Europa ha dovuto fare i conti con la propria natura imperfetta. E ha fallito. Il tentativo di mettere d’accordo tutti i leader europei per trovare una soluzione comune per uscire dall’impasse si è rivelato, per la grande maggioranza dei casi, un disastro. Fra Consigli europei notturni, riunione dell’Eurogruppo di emergenza e scontri sulle politiche economiche da adottare, l’Europa è però rimasta integra. Per ora.

L’eurozona è ferma. La cristallizzazione è arrivata il 26 luglio scorso, quando il presidente della Bce ha parlato dalla Global investment conference di Londra. La frase che racchiude la situazione nel secondo semestre dell’anno è destinata a entrare, nel bene e nel male, nei libri di storia: «All’interno del proprio mandato, la Bce è pronta a fare qualunque cosa per preservare l’euro… e credetemi, questo basterà». Un mese dopo, durante la riunione dell’Eurotower di settembre, avviene il lancio delle Outright monetary transaction (Omt), il piano di acquisto di bond governativi a breve termine sul mercato secondario. La prima reazione degli operatori è di scetticismo. Il timore è che le Omt siano come il vecchio programma di operazioni di mercato aperto, il Securities markets programme (Smp). Con questo la Bce ha sostenuto Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia sui mercati obbligazionari. Ed è rimasta bruciata. Le promesse di riforme nei Paesi aiutati, conditio sine qua non dell’attivazione del Smp, sono state tradite. Ecco perché per richiedere il supporto delle Omt è necessario siglare un memorandum d’intesa basato sulle Enhanced conditions credit line (Eccl) del fondo salva-Stati temporaneo European financial stability facility (Efsf). In altre parole, si tratta delle linee guida del Fondo monetario internazionale (Fmi), le Precautionary credit line (Pcl).

Insieme alle Omt, l’Ue decide di attivare, con un anno di anticipo, il fondo di stabilizzazione finanziaria European stability mechanism (Esm). Si tratta del più grande progetto finanziario della zona euro, un fondo con una potenza di fuoco di 500 miliardi di euro. «È come un firewall che l’Europa ha innalzato», scrisse la banca francese Société Générale. Eppure, nemmeno utilizzando tutti i 500 miliardi di euro dello Esm si potrebbe sostenere Italia e Spagna nel caso perdessero l’accesso ai mercati obbligazionari. Troppo elevate le esigenze di rifinanziamento per i prossimi anni.

Il 2012 è stato l’anno del primo fallimento sovrano nella storia dell’eurozona. Il 9 marzo scorso la Grecia è stata dichiarata tecnicamente insolvente sul suo debito pubblico detenuto dai creditori privati, tramite il Private sector involvement (Psi). La decisione è arrivata dopo l’asta sui Credit default swap (Cds), gli strumenti che fungono da assicurazione sul debito, condotta dall’International swaps & derivatives association (Isda), l’organo internazionale che disciplina i derivati finanziari. Non poteva essere altrimenti, dopo una delle più grandi ristrutturazioni del debito mai avvenute: 206 miliardi di euro su 360 totali. Doveva essere il punto di svolta della situazione ellenica. È stato il punto più basso della gestione della crisi da parte dell’Unione europea. Non solo non ha migliorato i conti pubblici greci, ma ha dato via a una spirale di sofferenza per tutta l’eurozona. E c’è anche lo zampino del Fmi. Il capo economista dell’istituzione di Washington, Olivier Blanchard, ha infatti chiesto scusa per le previsioni fatte dal Fmi sulla Grecia: il moltiplicatore fiscale utilizzato è stato errato. Troppo bassa l’incidenza delle misure di austerity. Risultato? La depressione economica ha preso il posto della recessione.

Dopo pochi mesi di ulteriore incertezza, gli investitori internazionali hanno iniziato a credere davvero in un collasso dell’euro. Non era difficile pensare il contrario. Il perenne scontro fra Germania e resto d’Europa – la divisione fra austerity e crescita – hanno messo in luce tutta la precarietà del progetto dell’euro come valuta. Unire 17 Paesi con 17 economie differenti, 17 società diverse, 17 politiche e 17 interessi nazionali non era facile. E infatti inizia a entrare nella mente dei fondi esteri che, nella pianificazione degli investimenti, si debba contare anche il rischio di convertibilità. In pratica, il possibile ritorno di alcuni Stati alle valute nazionali. Quella che ci va più vicino è la Grecia.

L’austerity, il consolidamento fiscale, la depressione economica, i suicidi. Atene brucia mentre i suoi politici sperperano il denaro della comunità internazionale e non mantengono gli impegni assunti con la troika. La tentazione di tornare alla dracma è molta. Solo le negoziazioni fra Berlino, Grecia e Washington riportano tutto alla calma. Eppure, i soldi non bastano mai. È per questo che si arriva ben presto a pensare a uno nuovo strumento di riduzione delle metastasi elleniche. Si tratta dell’Official sector involvement (Osi), cioè la partecipazione dei creditori pubblici nella seconda ristrutturazione del debito greco. Fino al 2016 è difficile che arrivi. In compenso, poco prima di Natale, arriva il regalo più gradito da Atene: quasi 50 miliardi di euro, uniti a condizioni più favorevoli per il rimborso dei prestiti.

Nel frattempo, complici le mosse della Bce, Spagna e Italia decidono di non chiedere gli aiuti alla troika. «Una scelta lungimirante», dice Morgan Stanley. Il motivo è semplice: meglio dare credito all’Eurotower nel breve periodo, piuttosto che lanciarsi nel vuoto abbracciando i prestiti di Fmi, Ue e Bce. Di parere opposto Citi, che ritiene che Madrid e Roma avrebbero dovuto chiedere l’attivazione degli scudi di Bce e Ue. «Meglio anticipare i mercati finanziari, piuttosto che affannarsi dopo», ha scritto Willem Buiter, capo economista della banca statunitense.

In questo clima di calma apparente è facile perdere la cognizione di cosa è successo. A inizio anno, le stime di Fmi e Commissione Ue vedevano una parziale ripresa economica per l’area euro sul finale del 2012. Dopo sistematiche revisioni al ribasso, è quasi sicuro che per Italia a Spagna, i due più grandi epicentri di crisi nell’eurozona, anche l’intero 2013 sarà all’insegna della recessione. E perfino due Paesi considerati sicuri come Francia e Germania stanno registrando i primi segnali di contrazione economica.

Criticare ora gli euroscettici è facile, ma controproducente. Cosa è cambiato dal giugno scorso, quando Christine Lagarde, numero uno del Fmi, e George Soros, il più celebre finanziere, dissero che l’eurozona aveva tre mesi di vita? Poco o nulla. L’Europa si muove ancora troppo lentamente. Nel novembre 2011 il cancelliere Merkel disse che entro il dicembre 2012 sarebbero arrivate le riforme dei Trattati Ue. È stato introdotto, con fatica, il nuovo patto fiscale, il Fiscal compact, che pone come vincoli il rapporto deficit/Pil al 3% e il rapporto debito/Pil al 60 per cento. Come sancito dal Trattato di Maastricht. Eppure, il Fiscal compact sarà violato dalla Spagna, che ha chiesto una deroga per il rientro del deficit. Insomma, il buongiorno non si vede dal mattino. È nato lo Esm, ma sono ancora molti i dubbi in che modo potrà agire sui mercati finanziari. Colpa di un assetto legale ancora troppo acerbo. Un’occasione per dare un segnale agli investitori poteva essere la nascita dell’unione bancaria. Anche in questo caso, si è trattato di un’opportunità mancata: arriverà solo, e dal 2014, la sorveglianza bancaria.

«Il peggio è passato». Così il ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble ha dichiarato pochi giorni fa. Il problema è la definizione del peggio. Nel 2012 l’eurozona ha messo in luce tutta la sua bizantina struttura. I tre fattori che hanno caratterizzato i mercati finanziari nel corso dell’anno – Il blocco del sistema interbancario, il congelamento del mercato dei pronti contro termine e la scarsità di liquidità sui mercati monetari – hanno rivelato le profonde distorsioni all’interno dell’eurozona. Si tratta di uno scenario conosciuto all’Italia. A fronte di un area settentrionale in genere produttiva e virtuosa, c’è un’area meridionale meno virtuosa, che ottiene i trasferimenti della parte più forte. E con il perdurare della crisi, complice anche un’applicazione errata delle politiche di consolidamento fiscale, questa divisione è destinata ad aumentare. La Bce ha regalato tempo all’eurozona, cristallizzando la situazione. Il problema è che questo tempo non è infinito.  

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