«Gli ultimi fuochi», parafrasando il celebre film di Elia Kazan, si sono accesi ai primi di dicembre. A Montecitorio, insieme con la fidata Paola Goisis, Umberto Bossi si è lasciato un po’ andare. Nella saletta fumatori, con l’immancabile sigaro in bocca, ha ruggito, commentando la situazione interna alla Lega Nord e al nuovo corso del segretario federale Roberto Maroni: «Lasciamo che i pescecani finiscano di azzannarsi».
Correva il giorno 6 dicembre 2012, vigilia della crisi del governo di Mario Monti, quando Silvio Berlusconi e Angelino Alfano hanno deciso di staccare la spina all’esecutivo. Il ruggito è rimasto lì. Lo hanno sentito in pochi. Perché Bossi somiglia ormai a un leone solitario, di quelli che ciondolano stanchi sotto i baobab per ripararsi dal sole, in una savana che ha ormai cambiato colori e dove i protagonisti non sono più quelli di una volta.
Quell’urlo sui pescecani si è dissolto in una nuvola di fumo. Come succede da un bel po’ di settimane, se non da mesi. Bossi sfodera i fucili, ma a nessuno importa niente. Bossi concede interviste dove minaccia tutto e tutti, ma l’impatto è nullo. Bossi chiede un posto in parlamento, minaccia di sfoderare la rivoltella, ma di risposte ne arrivano ancora meno.
Quando parla in consiglio federale, ormai tutto a trazione maroniana, in pochi capiscono cosa vuole dire. Ci sta poco. Spesso fa riferimenti a complotti o retroscena simili a quelli sull’11 settembre di New York. Berlusconi gli continua a dire a «convinci Maroni, dobbiamo allearci», lui poi prova a dirlo a Bobo, ma poi il segretario fa di testa sua. Dice no a Berlusconi. E alla fine il Cavaliere si allinea dicendo che il premier non è stato ancora deciso. Un cortocircuito che testimonia come Silvio e Umberto, ormai, farannno fatica a ritrovarsi nella terza repubblica.
Di certo, il ciondolamento nella Savana, il ruggire fumoso, è cominciato da quando gli scandali sull’ex tesoriere Francesco Belsito hanno fatto tremare tutta la Lega, colpendola al cuore e lasciando per terra il cerchio magico del Senatùr, da Rosi Mauro fino a Renzo Bossi, da Federico Bricolo fino alla moglie Manuela Marrone. Ci ha pianto sopra. Ha chiesto scusa, alla manifestazione delle scope. Allo statista di Gemonio non è rimasto che Giulio Tremonti, l’ex ministro dell’Economia che è riuscito a piazzare il simbolo del suo partito nello stemma della Lega: l’amico Giulio è l’ultimo appiglio a un mondo che ormai non esiste più.
Anche l’altra sera, in quel di Albino, alle porte di Bergamo, Berghem Frecc, il Senatùr ha rimandato al mittente le richieste di un piccolo gruppo di leghisti secessionisti. La Goisis, insieme con Carolina Lussana, Giuseppe Leoni, Giacomo Chiappori e l’immancabile senatore Giovanni Torri, avrebbero chiesto all’ex segretario di rifondare la Lega. «Facciamo Rifondazione leghista, Umberto, dai». Ma lui ciondolando, voce rauca, ha detto di no. «Lasciate lavorare Maroni». Taglia corto un barbaro sognante a commento della vicenda: «Li ha sfanculati ancora una volta». Chi pensava che la Lega sarebbe morta con Bossi, sarebbe defunta con l’uomo «immagine» per eccellenza, al momento, è stato smentito.
Eppure l’Umberto a quella Rifondazione Leghista ci aveva pensato in aprile, a cadavere del Carroccio ancora caldo, per le indagini di tre procure su qualsiasi cosa, persino la ‘ndrangheta. Ma poi non se n’è fatto nulla. Aveva iniziato a capire che «erano quattro gatti», che pure quella «brava tusa» della Rosi Mauro contava meno di zero. Del resto, proprio la Mauro, che ha fondato insieme a Lorenzo Bodega il partito Siamo Gente Comune, si ritrova in questi giorni a presenziare in prima fila alle conferenze stampa di Mario Monti e a chiedere a Gabriele Albertini almeno un posto in regione: di risposte, chiaramente, non ne arrivano.
Un tempo erano i leghisti a doversi allineare a lui. Ora è lui a tenere la linea del segretario federale. Lo ha ripetuto sempre ad Albino rispetto all’alleanza con il Pdl di Silvio Berlusconi in Lombardia e alle politiche, una tragicommedia che va avanti da almeno un mese. «Difficile trovare un accordo», ha detto il Senatùr, che aveva già chiesto al Cavaliere di farsi da parte, di abbandonare l’idea di candidarsi a premier.
Maroni dal canto suo tiene duro. Tanto che nelle ultime ore ha proposto come candidato perfino il sindaco di Verona Flavio Tosi, rottamatore della Lega, che correrebbe per perdere, ma che – ricordano in via Bellerio- «ci farebbe guadagnare la dignità di andare da soli e di ridare forza alla Lega 2.0». Bossi sarebbe felice pure di un accordo su Tremonti, ma in cuor suo sa che le sue parole contano ormai poco.
Un tempo arrivava ad Arcore come un re, accerchiato dalla Mauro, da Marco Reguzzoni, Federico Bricolo e Calderoli. Si sedeva al tavolo con Berlusconi, Denis Verdini, lo stesso Tremonti, con Fabrizio Cicchitto o Roberto Formigoni. Due parole sulle alleanze, l’immancabile Coca Cola, una pizza, poi il resto del tempo a ridere, tra battute, scherzi e le solite storielle sulle donne. Di quel periodo è rimasto meno della cenere del suo sigaro in un posacenere. Il federalismo fiscale non è mai stato realizzato. La secessione lasciamo perdere. Il Nord è più in difficoltà rispetto a vent’anni fa. Le imprese fanno fatica a risollevarsi. La crisi morde e Bossi continua a ripetere che «i popoli si ribelleranno».
Ma in questi dieci anni di accordo con Forza Italia, Pdl, Casa della Libertà e affini, sono state più le amarezze, i malumori che i momenti di gioia. Certo ci sono state le «cadreghe», nelle istituzioni, nelle fondazioni bancarie, nelle grandi aziende pubbliche come Finmeccanica o Enel. Ma la Lega, a fronte di decine di discussioni su leggi ad personam, salvacondotti e voti per i Cosentino o i Papa di turno, si è ritrovata in mano gli stessi problemi di sempre. E una pancia padana che sul pratone di Pontida ha sfogato più di una volta tutto il suo malessere.
Pure Pontida, il rito dell’ampolla sono stati ridimensionati. Torneranno dopo le elezioni, con calma, anche perché di corna e urla contro «terroni, negri e omosessuali» non se ne vuole più sentire parlare dentro via Bellerio. C’è da formare una classe dirigente, che trova i suoi fari proprio in Tosi o nel governatore del Veneto Luca Zaia, che cercano di fare la parte dei bravi amministratori, dialogando con la destra e con la sinistra.
Non è un caso che Maroni abbia incominciato a incontrare le imprese, le categorie professionali per capire davvero il malessere di Lombardia, Veneto e Piemonte. «Ha iniziato a lavorare», commenta ironico un ex leghista. Le cadreghe di Roma, o quelle per il Trota in regione, non hanno fatto bene e lo stesso Senatùr se n’è accorto. Magari troppo tardi, ma questa è la situazione e indietro non si può tornare.
Quel mondo non c’è più. Bossi lo ha capito. Pensare che l’anno scorso, 2011, proprio ad Albino, 29 dicembre, aveva ancora alzato la voce. Aveva attaccato il presidente Giorgio Napolitano, gli aveva dato del «terùn». Quest’anno nulla di tutto questo. C’è da tenere la linea di Maroni che ai suoi ha chiesto da diverso tempo di non attaccare il Capo dello Stato: l’europarlamentare Mario Borghezio è stato rimbrottato più volte sulla questione.
Una volta, quando si litigava dentro il Carroccio, quando i pescecani iniziavano ad azzannarsi, arrivava il Senatùr e diceva «zitti tutti». E tutti si riallineavano, in silenzio, masticando amaro. Ora si dice che Maroni sia un po’ meno decisionista di Bossi, che un po’ di malumori ci siano per pratiche organizzative che bisogna sbrigare, ma che comunque si respiri un’altra aria in Bellerio. A Bobo si dà credito in questo periodo. C’è la campagna elettorale per la Lombardia. C’è da restare uniti. Poi si vedrà.
Si mormora che comunque finisca, vittoria o sconfitta, il segretario federale sarà messo in discussione. Sia perché se scalasse il Pirellone Maroni avrebbe diverso lavoro da fare (e di fare il segretario e sbrigare quelle benedette pratiche amministrative non ha voglia ndr) sia perché se venisse sconfitto sarebbe la conferma che la linea politica tenuta in questi mesi non ha prodotto risultati plausibili.
Ma per una Lega che era vicina al baratro, vicina all’epilogo del Psi di Bettino Craxi, appare difficile pensare che tra qui a due mesi si riapra una nuova fase di cambiamento. Il gruppo appare compatto. E Bossi continua a mantenere l’accordo (che comporta un vitalizio per lui ndr) con Bobo, senza lamentele e senza particolari problemi. In molti, tra i leghisti, hanno sorriso quando negli ultimi giorni di legislatura tra i cronisti si pensava che con un suo ritorno in campo si sarebbe ricreato l’asse del Nord, con Berlusconi a braccetto della Lega. Niente di niente. Tanto che si dice che l’unica persona che abbia un po’ di influenza berlusconiana su Maroni sia la portavoce Isabella Votino. I rottamatori leghisti, da Tosi a Gianluca Pini, da Gianni Fava a Massimiliano Fedriga, vigilano su Maroni, anche se durante il consiglio federale gli hanno conferito il mandato di gestire le alleanze.
Forse, se Bossi non avesse dato dello «stronzo» a Tosi, se non avesse pensato che i leghisti che chiedevano più spazio non volevano il male della Lega Nord sarebbe stato tutto diverso. Ma il vecchio leone padano, già piegato dalla malattia, ci ha messo un po’ a capirlo. Forse ha dato credito a persone come Angelo Alessandri, che è stato segretario nazionale dell’Emilia per 10 anni, (proprio perché di congressi non se ne facevano più ndr) e che poi, un bel giorno, ha deciso di andarsene, sbattendo la porta. Il Senatùr lo ha incrociato a Montecitorio a metà dicembre e l’ha mandato letteralmente a quel paese: un finale peggiore di così non si poteva.
Il Senatùr l’ha capito davvero? Pare di sì. Al congresso di Assago, quello del Re Salomone, del bambino diviso in due, disse che la Lega Nord era stata scassinata da dentro. Ma anche allora, commentavano i barbari sognanti di Maroni, erano i consiglieri, il cerchio magico a suggerirgli cose sbagliate. Voleva ancora contare il cerchio, voleva ritagliare posti in parlamento e in regione, voleva un 20 %, una quota assicurativa: gli hanno detto di no.
Adessso, che le percentuali elettorali sono al minimo, non ci sarà posto per tutti a Montecitorio e palazzo Madama, nè in Lombardia. Lo statista di Gemonio forse alla fine ce la farà a ritornare a Roma. Gli basterà per andarsi a fumare qualche sigaro in giacca e cravatta nella sala fumatori. Per ciondolare ancora un po’ in un mondo che non gli appartiene più. Del resto, l’alternativa dove trascorrere la «pensione» è la casa di Gemonio, tra una moglie sempre sul piedi di guerra, i figli agricoltori e le inchieste, o il bar Bellevue di Laveno Mombello. Nel 2011 una macchina l’ha centrato sfasciandolo. Ora Bossi ci torna a volte per giocare a braccio di ferro.