A Milano, forse, siamo un po’ duri di comprendonio. O forse, come capita da migliaia d’anni agli uomini, non impariamo le lezioni che il passato ci fornisce. Così, venti anni fa a Milano, i simboli civici che sapevano di anni settanta – pensiamo alla candidatura di Nando Dalla Chiesa – andavano a sbattere contro l’onda che a Milano fu rappresentata prima da Marco Formentini e poi da Gabriele Albertini. Due milanesi, certo, ma due che somigliavano a quel modello di politica che non temeva di sembrare provincialmente nordista, o di rinchiudersi in obiettivi minimali come “l’amministrazione di condominio” che fu il vero slogan di Albertini. Dalla Chiesa perse, e perse male, impugnando la bandiera di valori e testimonianze. Perse, è bene ricordarselo, in quella Milano che lo esprimeva; perse perché la saldatura tra salotti progressisti e conservatori non si accorse che nella “Milano reale” tirava un’aria diversa, e comunque capace di intercettare quelle stesse pulsioni indignate o moralizzatrici che Dalla Chiesa ambiva ad affermare. Nel palazzo della Regione, questo clima, appena aggiornato e già più distante da Tangentopoli, diede vita ai diciassette anni di Formigoni: un democristiano ciellino lecchese, capace tra mille scaramucce di trovare una lingua comune coi leghisti che avevano le loro capitali a Varese, a Bergamo, in Brianza, non certo a Milano.
Venti anni dopo – guardando a queste “primarie” lombarde che Umberto Ambrosoli avrebbe preferito non fare – il centrosinistra sembra non aver guardato fino in fondo la traiettoria di questi decenni né, tanto meno, ha fornito una risposta culturale capace davvero di raccogliere le istanze di maggior equità fiscale e di burocrazia più efficiente, ad esempio, che quel mondo di provincia continuerebbe a pretendere.
A una settimana dalle primarie civiche che vedranno confrontarsi Ambrosoli, Di Stefano e Kustermann, sembra che, ancora una volta, la capitale lombarda invece di guardare fuori da sé, oltre se stessa, abbia piuttosto preferito rinchiudersi attorno a se stessa, ai suoi circoli storici, alle sue reti relazionali consolidate, ai suoi rituali antichi come quello celebrato ieri, come ogni anno, alla Scala. Rituali, relazioni e sensibilità – quelle del centro di Milano – che ovviamente non portano dentro di sé nulla di male, se non un’ormai consolidata e atavica distanza da quel che succede nella società. Una distanza che diventa via via più profonda, mano a mano che da quella Milano ci si allontana per andare dove dove una volta c’erano fabbriche ora vuote e dismesse, o campagna coltivate oggi popolate da vecchi e extracomunitari, o strade di provincia sempre intasate in attesa di nuove infrastrutture, o lunghe liste di attesa negli ospedali.
In questo senso, fa davvero un po’ specie vedere che i due principali candidati di area Pd riflettano l’immagine di una candidatura di testimonianza di valori e di antropologie, molto prima e molto di più che due curriculum e due programmi. Ambrosoli, appena ieri, diceva che è in campo contro “la nuova tangentopoli”. Concetti simili, in fondo, ha restituito in diverse occasioni Alessandra Kustermann, che in ogni occasione fa giustamente valere la sua lunga esperienza di primario in una regione in cui la sanità è un crocevia complicato, perfino oltre la centralità che ogni ente regionale ha rispetto al sistema sanitario.
Solo che ascoltando entrambi i candidati in diverse occasioni, guardando i loro programmi, resta forte la sensazione che non si colga appieno la complessità che la Regione rappresenta. Si fa infatti assai in fretta a scaricare con pochi distinguo il lungo e discutibilissimo passato formigoniano, troppo spesso persosi in una strana zona grigia in cui si incontravano e decidevano la politica e il lobbysmo di parte. Ma governare una transizione in una macchina comunque oliata, con le sue efficienze e i suoi rodaggi ben svolti, richiede, almeno, la stessa capacità organizzativa che aveva, nei suoi giorni migliori, la stagione della Lombardia di Roberto Formigoni. Serve, soprattutto, una squadra di competenze ed esperienze multidisciplinari: che abbiano fatto politica, o che abbiano competenze tecniche specifiche come un ente davvero tecnico-amministrativo-legislativo, quale la regione, richiede. In tutta franchezza, questa solidità al momento, a una settimana dalle primarie del pd, non la vediamo, né nello spontaneismo della sinistra-bene di Alessandra Kustermann, né nella schiva aristocrazia intellettuale di Umberto Ambrosoli, accompagnata da pezzi di prima Repubblica e da un apparato di partito che a livello regionale, negli anni, si è difeso peggio di quello cittadino.
A fronte di una un’onesta candidatura di testimonianza, non si potrebbe certo dar torto a tanti lombardi – vecchia gente concreta, dopo tutto – che nell’interesse del posto in cui vivono scegliessero senza troppi dubbi chi, ad esempio, è stato a capo di un posto complicato senza demeritare: come l’ex ministro dell’interno Roberto Maroni, in cerca di rilancio per un brand con già troppo passato, quello leghista. O perfino come l’ex-ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, se a Palazzo Grazioli così si vorrà davvero.
Per gli elettori che non abbiano voglia di vedere vecchi politici e credano però al voto come testimonianza o sfogo etico o moralista, peraltro, l’alternativa c’è già. Parlo di quanti hanno pulsioni etiche e moralizzatrici spinte come quelle sventolate da Kustermann e Ambrosoli, di quanti le vogliono vedere rappresentate in modo chiaro e tutto sommato coerente (finora, e dato il contesto), e non si vergognino di votare Beppe Grillo. Senza troppo confrontarsi col pensiero concreto di una lombardia a guida grillina.
Ma dalle parti del centrosinistra lombardo, anche se interrogati e consci dei limiti di questo percorso, non si perdono d’animo. Sperano che, votando possibilmente con le politiche, ci sia un effetto trascinamento col voto politico. Si ha fiducia, insomma, in una vittoria nazionale ancora da conquistare, perché venga a mascherare i limiti del partito democratico nella più importante regione italiana. Che dopo aver “conquistato Roma” con Bossi, Berlusconi e Tremonti, preferisce evidentemente lasciare che siano equilibri più grandi a decidere il suo destino. Che può anche starci: solo che in Lombardia, nel 2012, invece di volgere lo sguardo a Bruxelles e a Berlino, preferiamo guardare verso Roma.
(ptima pubblicazione: 8 dicembre)