De Bortoli raccoglie lo sfogo di un Monti indignato

De Bortoli raccoglie lo sfogo di un Monti indignato

(f. de b.) Questa è la cronaca di ore drammatiche nella vita del Paese che mai avremmo voluto scrivere. Un governo muore così. Nella Festa dell’Immacolata, a mercati chiusi, ma a occhi ben aperti di una comunità internazionale che non capisce e da lunedì ci farà pagare un prezzo assai alto. La ridiscesa in campo del Cavaliere aveva già prodotto, dalla convulsa serata di mercoledì, un terremoto inarrestabile, ma sono state le parole di Alfano pronunciate venerdì alla Camera a far cadere le ultime resistenze del Professore. Ricorda un dispiaciuto presidente della Repubblica al termine del lungo colloquio di ieri, nel quale il premier uscente gli ha manifestato, con cortesia e fermezza, la propria volontà di dimettersi, che tutto è cominciato alla fine del Lohengrin alla Scala nella serata di Sant’Ambrogio, dopo quella prima alla quale, forse con anziana preveggenza, aveva deciso di non partecipare.

«Ci siamo sentiti subito dopo », dice Napolitano. Ed era già evidente, seguendo il filo del racconto del presidente, il disagio, il disappunto, non la rabbia perché quella non fa parte del vocabolario di un professore abituato a misurare le parole, a dosare aggettivi e mosse, la sua volontà di porre termine a un anno di governo, che per lui è stato pari a un decennio, di sofferenze, ma anche di soddisfazioni, specie internazionali.

Quando Monti parla con Napolitano in una saletta della società del Giardino, antico circolo milanese, sede del ricevimento scaligero, non ha ancora avuto modo di leggere con attenzione le parole pronunciate alla Camera dal segretario Alfano poche ore prima. Conosce i titoli e il senso dell’intervento, ma non lo ha ancora letto né tantomeno soppesato. Le cinque ore trascorse nel Piermarini ad assistere alla rappresentazione wagneriana, la leggenda dell’eroe romantico in una terra percorsa da liti e contrasti, non devono averlo appassionato molto. Parla poco, Monti, rilascia solo una enigmatica dichiarazione sul Re Sole, ovvero Berlusconi, che si è allontanato da lui. Ma forse vede accanto al cigno bianco di Lohengrin anche quello nero del suo governo, recapitato dal duo Berlusconi-Alfano, con una musica certamente più sgradevole.

Il colloquio telefonico di venerdì sera con Napolitano è il prologo di quello ben più drammatico di ieri sera. La moglie Elsa, incontrata in una sala della società del Giardino, appare turbata. «Mario? È su che sta telefonando». Chi la conosce da tanti anni capisce che qualcosa sta succedendo. E veniamo alla giornata di oggi. Monti racconta di essere stato a Cannes. «Non ho risposto per tutta la giornata alle molte domande che mi venivano poste, soprattutto dagli stranieri. Ho colto il loro sbalordimento per la situazione italiana ». Il Professore racconta di essere andato a Cannes dopo aver letto e riletto la dichiarazione di Alfano e di essersi convinto che quella era la vera mozione di sfiducia nei confronti del suo governo. («Mi sono sentito profondamente indignato nel leggere quelle parole», questa è la frase riportata sul Corriere e che manca nella versione on line). Sprezzante sui risultati ottenuti, violenta nei toni, profondamente ingiusta.

E si domanda perché non siano stati più coerenti i rappresentanti del Pdl, partito per lunghi mesi responsabile e disciplinato di quella che un tempo era, per sua definizione, una «stranamaggioranza», a votargli subito la sfiducia. Sarebbe stato preferibile. E non si capacita il Professore che le parole liquidatorie e persino insultanti, le abbia pronunciate un segretario del Pdl «sempre gentile e premuroso» e improvvisamente trasformatosi in un tribuno duro e tagliente. «Ho maturato la convinzione che non si potesse andare avanti così». Ho cercato in questi mesi, confessa un amareggiato ma non piegato premier, di non cedere al mio carattere, di essere meno suscettibile, ebbene avrei preferito che staccassero la spina direttamente, con un voto di sfiducia, non in quel modo. Di ritorno da Cannes, Monti si dirige verso Roma, dove lo attende Napolitano. Ha già deciso di dimettersi, con dignità, quella dignità ferita dalle parole di Alfano e dalle pronunce ripetute a Milanello del Cavaliere, ridisceso in campo con quella baldanza che molti osservatori esteri non si spiegano o, peggio, non tentano nemmeno di spiegarsi. «Ho preferito farlo subito, a mercati chiusi». Sì, presidente, ma lunedì riaprono. «Già».

Quando arriva al Quirinale, nella serata di ieri, il presidente della Repubblica che lo ha fortemente voluto alla guida di un governo tecnico che ha salvato l’Italia dalla bancarotta del novembre scorso, sa che il finale è già scritto. I due hanno caratteri diversi, ma la stima e l’amicizia sono profondi. Il capo dello Stato sa che non può fare più nulla. Discutono a lungo della posizione del Pdl e soprattutto della nota di Alfano. Napolitano condivide lo sdegno per le parole del segretario del Pdl, ingiuste nel bilancio di un anno di lavoro del governo tecnico che pur ha avuto alti e bassi, riforme positive e altre meno, ma che ha ridato immagine e rispettabilità al Paese in giro per il mondo. Capisco e condivido, dice in sintesi Napolitano, il senso di dignità personale e istituzionale che ha mosso il premier ad annunciare le proprie dimissioni. Confessa Napolitano di aver faticato non poco a convincerlo a rimanere per l’approvazione della legge di stabilità, per la legge di variazione di bilancio. Ma entrambi si sono trovati assolutamente d’accordo nell’evitare al Paese l’onta di un avvilente esercizio provvisorio. Napolitano fa ricorso, e si rende conto che il paragone è tutt’altro che esaltante per Monti, al novembre scorso quando convinse Berlusconi a dimettersi e questi lo fece dopo l’approvazione della allora più che incerta e sofferta legge di stabilità. Un paragone che Monti con sense of humor accetta.

La discussione tocca anche la ridiscesa in campo di Berlusconi, che il capo dello Stato giudica, nei toni e negli argomenti, esaltata e pericolosa. Anche per lo stesso Cavaliere. Lo scenario che si apre è, dunque, il seguente. Il giorno dopo l’approvazione della legge di stabilità, e ci vorranno presumibilmente sei o sette giorni, il presidente della Repubblica scioglierà le Camere. È escluso, anche se Napolitano afferma di prendersi una pausa di riflessione sulle modalità, che il governo venga rimandato alle Camere. Il discorso di Alfano è suonato alle orecchie di Monti come una sfiducia conclamata. Dunque, meglio evitare un nuovo e imbarazzante passaggio formale. Ma la questione resta aperta. Si voterà a questo punto a febbraio. Ciò comporterà, probabilmente, anche le dimissioni anticipate di Napolitano che più volte ha ripetuto di non voler essere lui a conferire l’incarico per la formazione del nuovo governo della prossima legislatura. Il finale di questa, morente nel modo peggiore, è stato ben diverso da quello che il Quirinale si aspettava. Anche Napolitano non si persuade di come sia stato possibile un cambiamento così repentino della scena politica. Anche lui, come Monti, aveva incontrato il «gentile e attento» Alfano e non immaginava una svolta oratoria, alla Brunetta, di tale asprezza. Si aspettava che i moderati e i liberali del centrodestra facessero sentire la propria voce e invece, nelle sue parole, appare forte l’apprensione per la svolta, definita a tratti di bestiale egocentrismo, che il Cavaliere ha impresso alla politica italiana.

Lo sguardo è su quello che accadrà lunedì, sui mercati e nelle cancellerie internazionali che torneranno a considerare l’Italia una fonte di contagio, con tutte le conseguenze che possiamo immaginare. Il governo resterà in carica per l’ordinaria amministrazione, ferito a morte, in una campagna elettorale che si annuncia tra le più difficili e tormentate del Dopoguerra. «Doveva avere il coraggio di staccarmi la spina, sapendo che l’avrei potuta staccare anch’io », ripete Monti in tarda serata, con l’aria sollevata e, conoscendolo, con molta amarezza in corpo. E forse anche una sottile emalcelata aria di rivincita. E ora presidente, lei è libero di prendere qualsiasi decisione, anche di candidarsi alle politiche, ormai la necessità di essere super partes è caduta o no? Il silenzio dell’interlocutore è significativo, è chiaro che ora si sente libero di decidere. Ci sta pensando, molti lo spingono a fare un passo. E anche il presidente della Repubblica, crediamo, non lo ritiene più impossibile. In poche ore muore il governo tecnico, il paese corre alle urne, in un confronto così radicale che schiaccia moderati e liberali che guardano a Monti con rinnovata speranza. Forse Alfano non sapeva che con le sue parole ha fatto cadere un esecutivo ma non ha tolto di mezzo un leader. La pressione dei centristi su Monti si intensificherà. E lui non tornerà di certo alla Bocconi. Il Lohengrin della Scala è finito negli applausi. La tragedia italiana continua. Il libretto è tutto da scrivere, la musica pure, la platea assicurata e mondiale, ma purtroppo assai poco disposta nei confronti degli interpreti. Il sipario non scende mai.

(tratto da Corriere.it)

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