BRUXELLES – Eamon Gilmore non ha dubbi. La priorità della presidenza irlandese dell’Ue per il primo semestre 2013, dice il Tánaiste (ovvero vicepremier) nonché ministro degli Esteri di Dublino, riguarderà l’occupazione e la crescita. «La priorità dell’Irlanda – ha detto a Bruxelles – è assicurare una ripresa che porti crescita per il nostro popolo. Se le priorità della nostra presidenza suonano in modo simile, è perché lo sono. L’Europa deve procedere alla prossima fase della ripresa». Dublino si è data un compito arduo, per quanto riconosciuto a parole da tutti. Perché il messaggio giunto, almeno fino ad ora, dall’Europa, o per meglio dire da buona parte dei suoi leader è tutt’altro. Finché si tratta di stabilizzare l’euro e le banche e i vari paesi sotto programmi di aiuto (tra cui l’Irlanda, per non parlare per la Grecia), alla fine i miliardi si trovano. Il tutto, naturalmente, a colpi di micidiali piani di austerity che tanto piacciono a Berlino. Quando però si tratta di passare a un vero programma Ue per la crescita, casca il proverbiale asino.
Tra le grane che Dublino deve affrontare, con l’ausilio del presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy, c’è in effetti quella, spinosissima, del bilancio pluriennale Ue 2014-2020 (Multiannual Financial Framework, MFF), che ha visto il clamoroso fiasco del summit straordinario tenutosi a novembre per una manciata di miliardi. Il paradosso non potrebbe essere più eclatante. Di questi giorni è il versamento di 34 miliardi da parte del vecchi fondo salva-stati Efsf alla Grecia (saranno 52 miliardi entro marzo), nel quadro di aiuti che, in due programmi, hanno toccato 250 miliardi di euro (incluso i 10 aggiuntivi per il riacquisto di titoli di Stato da parte di Atene). Nessuno contesta, naturalmente, l’esigenza di preservare la Grecia dalla bancarotta, ma non si può non notare che i miliardi, quando servono e si vuole, si trovano. Come nel caso della Spagna, per le cui banche semifallite il nuovo fondo salva-stati permanente Esm si accinge a versare 39 miliardi di euro. Sono prestiti anche questi certo, ma non dimentichiamo che l’Esm è finanziato dagli Stati a fondo perduto (a regime 80 miliardi di euro di capitale versato – 14,3 solo dall’Italia – su un totale di disponibilità di 700 miliardi). E come dimenticare i 18,2 miliardi di euro spesi dal governo tedesco per semi-nazionalizzare una sola banca, la Commerzbank?
Ebbene, a fronte di queste cifre colossali, per l’MFF – che è quello che può dare il valore aggiunto dell’Europa, proprio a fronte della gravissima crisi in corso – lo spettacolo cui abbiamo assistito, e cui continueremo ad assistere a inizio 2013, è quello di un negoziato durissimo per ridurre di poche decine di miliardi un bilancio già risicato, che oltretutto dal luglio 2013 dovrà coprire anche un 28° Stato membro (la Croazia, che avrà bisogno di molti fondi strutturali). L’ultima bozza con cui, nella notte tra il 22 e il 23 novembre Van Rompuy aveva cercato di convincere il fronte dei pagatori netti (tranne la Francia e l’Italia) a dare il proprio assenso, taglia di 80 miliardi di euro la proposta della Commissione (che è di 1.091 miliardi, poco più dell’1% del pil dell’Unione). Soprattutto il fronte guidato da Gran Bretagna e Svezia, ma sostenuto anche dalla Germania e dall’Olanda, ha detto di no per una ventina di miliardi (con un taglio di 100 miliardi Londra – che avrebbe voluto una riduzione di 150-200 miliardi- avrebbe detto sì). Traduciamo: il vertice è fallito per una differenza di 3 miliardi l’anno per sette anni tra la proposta Van Rompuy e le richieste dei “rigoristi”. «Alla fine dovremo ridurre ancora» dicono oltretutto fonti dell’entourage del presidente Ue in vista di un nuovo vertice tra febbraio e marzo 2013.
Quel che è peggio è che a fare le spese della contrazione rispetto alla proposta della Commissione è (anche) la Connecting Europe Facility (CEF), che deve finanziare aspetti cruciali come reti di trasporti, energia e telecomunicazione su base transnazionale, il vero plusvalore Ue. Già la proposta della Commissione era giudicata del tutto insufficiente dagli esperti (50 miliardi di euro in tutto, di cui appena 9,1 per l’energia, capitolo onerosissimo). Ebbene, proprio il CEF – che per definizione è transnazionale – è stato “scoperto” dai negoziatori come un pozzo da cui prelevare soldi in modo da ridurre meno tagli sgraditi a singole nazioni senza modificare il totale. Nella notte tra il 22 e il 23 novembre Van Rompuy, proprio pescando dalla Facility, ha ridotto di 8 miliardi i tagli alla politica agricola che facevano infuriare la Francia e di 10,6 miliardi quelli ai fondi di coesione che avevano inviperito l’Italia. Risultato: il CEF, già decurtato a 46 miliardi nella precedente bozza, è precipitato 41,24 miliardi di euro, di cui appena 7,12 per l’energia. Sono tante le fonti ad assicurare che si taglierà ancora, anche perché la Gran Bretagna aveva chiesto un tetto massimo di 26 miliardi complessivi per il CEF. Idem per un altro programma legato al MFF, Horizon 2020, che punta ad aiutare imprese e università, neanche a dirlo, a finanziare ricerca e innovazione. La Commissione propone 80 miliardi di euro, il Parlamento Europeo ne ha chiesti 100, «sarà grasso che cola se ne avremo 50» commenta scanzonato un negoziatore. Una cifra al massimo simbolica.
Chiudiamo con un de profundis per un altro progetto enfaticamente proclamato al summit di giugno, fortemente voluto dal presidente francese François Hollande con l’appoggio di Mario Monti e di cui si è persa, almeno per il momento, ogni traccia: il famoso Compact for Growth and Jobs, il patto per la crescita. Era, già allora, in buona sostanza una buffonata: i 120 miliardi di euro (appena l’1% del pil) destinati a, si legge nelle conclusioni di giugno, a «finanziare l’economia», sono in sostanza fondi Ue già stanziati da tempo spostati da un capitolo di spesa all’altro. Eppure nemmeno così si è riusciti ad andare avanti. Chissà se gli irlandesi riusciranno a sbloccare almeno questo.