Mercoledì 22 luglio 2009. Il Café de Paris, cuore e simbolo della Dolce Vita, celebre locale di Via Veneto frequentato da Federico Fellini e Frank Sinatra, da Sofia Loren e Marcello Mastroianni, viene posto sotto sequestro dagli uomini della Guardia di Finanza e dai Carabinieri del Ros. Le forze dell’ordine cercano di gettare luce sul misterioso acquisto del Café avvenuto nel 2005 per opera di un barbiere nullatenente originario di Sant’Eufemia d’Aspromonte: Damiano Villari. Il quale viene ritenuto dagli inquirenti un prestanome di Vincenzo Alvaro, boss del clan della ‘ndrangheta degli Alvaro-Palamara. È questo l’ultimo capitolo della gloriosa parabola di un luogo di ritrovo nato nel 1956 come bar-latteria poi divenuto punto di riferimento imprescindibile per attori, intellettuali, teste coronate di tutto il mondo.
Lavorare al Café costituiva un motivo di prestigio e richiedeva persino raccomandazioni politiche. A partire dagli anni Settanta inizia un lento e inarrestabile declino, culminato nel 1985 con l’attentato compiuto da terroristi palestinesi contro i turisti americani e gli alti funzionari della vicina ambasciata Usa suoi clienti abituali. Un’altra tappa ingloriosa è segnata nel 1992, anno della chiusura del locale a causa delle scarse condizioni igieniche. Sei anni più tardi l’apparente rinascita, quando nella proprietà subentra il cavaliere del lavoro Franco Todini. Che interviene attraverso la società “Café de Paris srl”, intestata alla moglie Maria Rita Clementi e al figlio Stefano. Tuttavia le prospettive di ripresa si rivelano illusorie. Gli affari non tornano agli antichi fasti e Todini decide di vendere.
È a questo punto che Rino Lepore, il proprietario dell’Harry’s Bar, altro celebre locale di Via Veneto, gli presenta Damiano Villari, a cui viene ceduto l’80 per cento del Café. Todini conserva il restante 20 per cento e assume una posizione sempre più defilata. Riguardo al nuovo titolare non nutre alcun sospetto pur riconoscendo la stranezza dell’operazione: «Al momento della vendita feci le opportune verifiche bancarie e controllai che non avesse pendenze con la giustizia. Più di così cosa avrei dovuto fare?». Sta di fatto che alle prime luci del mattino del luglio 2009 il locale finisce sotto il controllo degli amministratori giudiziari del capoluogo calabrese. Procura e Direzione distrettuale antimafia reggini sono persuasi che dietro una fitta rete di prestanome e società fittizie protagonisti della scalata ai luoghi della vita notturna di Via Veneto si celi il disegno di penetrazione di una delle principali e più temute ‘ndrine nella Capitale.
L’inchiesta, avviata nel 2007 e coordinata dal procuratore aggiunto della Repubblica di Roma nonché capo della Dda, Giancarlo Capaldo, con i pm Giovanni Bombardieri e Diana De Martino, è focalizzata sull’acquisto di quote societarie poi intestate a soggetti di comodo, per lo più stretti parenti o compaesani dei componenti del clan. Spunto dell’indagine è la natura sospetta di una molteplicità di investimenti finanziari in città, come l’acquisizione del controllo di esercizi commerciali che hanno sollevato dubbi per l’estrema rapidità della compravendita, le modalità della trattativa, la provenienza incerta e oscura delle risorse utilizzate per l’accordo. Per i magistrati inquirenti è la prova evidente che la criminalità organizzata individua nell’economia della Capitale un canale propizio per ripulire i propri profitti.
Gli Alvaro, chiamati “Beccausi” o “Codalonga” nei loro paesi d’origine, minuscoli paesini arroccati alle pendici dell’Aspromonte, hanno acquisito e consolidato negli anni potere e ricchezze grazie a svariati rapimenti, al traffico internazionale di droga, a speculazioni finanziarie su larga scala. Ascesa che ha indotto i magistrati e gli uomini della Dda reggina a parlare di “mafia alta”. Una realtà criminale sofisticata in grado di inserirsi negli snodi nevralgici del mondo finanziario romano, capace di impadronirsi in breve tempo di famosi locali turistici e notturni, e di reinvestire enormi capitali frutto delle attività illecite nel mercato edilizio della metropoli. La realizzazione del progetto è stata possibile grazie a un’elevata attitudine camaleontica imperniata su un diabolico intreccio di prestanome improbabili, in gran parte persone nullatenenti o con un reddito personale ai limiti della sussistenza, che di volta in volta si presentano e si accreditano come gli acquirenti e i gestori di ristoranti, bar, punti di ritrovo prestigiosi.
Ma tutto ciò è reso possibile anche grazie alla complicità di istituti di credito, assicuratori e notai attivi nel cuore della Capitale. È un vero e proprio impero economico quello edificato con pazienza e pervicacia da Alvaro, sposato con Grazia Palamara, legata al ramo familiare dei “Carni i cani” del boss della ‘ndrangheta Domenico “Giannazzu”. Una fortuna finanziaria divisa tra i numerosi affiliati della cosca, creata senza rendere pubbliche le modalità di pagamento, senza lasciare tracce bancarie dei movimenti di denaro. Marchingegni ed escamotage utili a comprendere il livello di evoluzione e di raffinatezza che una delle principali holding malavitose del pianeta ha raggiunto, registrando un volume di affari per oltre 50 miliardi di euro annui. L’infiltrazione progressiva nei gangli vitali del turismo capitolino ha rispettato un copione di rara precisione.
La Città Eterna era stata scelta dal boss per scontare il regime di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno che gli era stato inflitto dal Tribunale di Reggio Calabria nel 1999, quando era stato arrestato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Giunto a Roma nel 2000 con la famiglia e gli appartenenti al clan, Alvaro riesce a ottenere i primi notevoli successi conquistando il bar “California” in via Leonida Bissolati, a pochi metri dai grandi alberghi di via Veneto e dall’ambasciata Usa. Il locale viene acquistato in realtà dallo squattrinato barbiere calabrese Damiano Villari, arrivato a Roma nel 2003 e artefice nel giro di pochi anni di una formidabile scalata ad alcuni fra i luoghi più noti della vita notturna capitolina. Tranne che per il 2007, Villari dichiara un reddito appena sufficiente al sostentamento della propria famiglia.
A giudizio degli inquirenti sarebbe un uomo di fiducia del boss, in affari con Alvaro fin dai primi anni Novanta, una “testa di paglia” di una delle ‘ndrine più agguerrite. Il “barbiere prodigio”, dopo un breve periodo come dipendente del bar California, nel 2005 compra in contanti e per una cifra irrisoria il Café de Paris. È nell’incontro con l’antico proprietario Todini che Villari e il suo alter ego Alvaro, ufficialmente assunto come aiuto cuoco proprio al California, compiono il loro trionfale ingresso nel giro degli affari importanti della Capitale, all’origine di una spirale di operazioni finanziarie spericolate e senza scrupoli.
Ma quell’incontro desta dubbi e sospetti nei magistrati inquirenti, che decidono di fare piena luce sull’intera trattativa per la vendita dello storico locale. Todini già da tempo ha in mente di liberarsi di un esercizio commerciale che produce soltanto passività. A tale fine ha promosso una trattativa con l’ambizioso imprenditore libico Tabib Abdalla Seed, in procinto di acquistare il Café. Ma un blitz compiuto nell’arco di pochi giorni permette a Villari di subentrare nella contrattazione e di risolverla a suo favore sulla base di un accordo nominale di poco inferiore al milione di euro. Per sicurezza il barbiere Villari decide di “congelare” le proprie quote e aliena l’80 per cento della proprietà ad Antonio Casimiro, sconosciuto pensionato della provincia di Cosenza, che si impegna a pagare 240mila euro attraverso cinque assegni bancari. Poi, con assoluta spregiudicatezza degna di un esperto giocatore di borsa, ricompra con una finanziaria le azioni del pensionato ed emargina definitivamente Todini dalla gestione del Café de Paris. Al businessman nordafricano che non si arrende e tenta in ogni modo di entrare in possesso del locale, Villari confessa di non potere vendere «perché la mafia non me lo consente».
L’operazione promossa e portata a termine dalle forze dell’ordine nell’estate del 2009 dopo 24 mesi di accurate investigazioni economiche e bancarie anche su operazioni sospette provenienti dagli intermediari finanziari, solleva il velo su tale realtà e, come osserva il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, «fa emergere la punta di un iceberg: l’enorme flusso di profitti illeciti che le cosche criminali sviluppano e reinvestono nella Città Eterna». Parole che trovano un’eloquente conferma in ulteriori e preziosi elementi. Nella stessa iniziativa investigativa viene sequestrato un altro noto locale della Capitale, ritenuto ascrivibile al patrimonio del clan. Si tratta del ristorante George’s, ufficialmente appartenente alla “George’s Immobiliare e di gestione srl” e del valore commerciale di 50 milioni di euro.
Nel mirino degli Alvaro era finito anche un albergo a 5 stelle, l’Hotel Baglioni sempre a via Veneto. E i contatti per negoziarne l’acquisto erano stati stabiliti proprio da Villari. Complessivamente sono 15 le imprese e le ditte individuali operanti nel settore dei servizi della ristorazione confiscate dalla polizia giudiziaria. Oltre ai due locali romani, i provvedimenti preventivi toccano quattro immobili di pregio, tre autovetture di lusso, rapporti bancari, postali, assicurativi e denaro contante. Per un valore totale di oltre 200 milioni di euro. Ma l’intervento dello Stato per ristabilire la legalità nell’ex cuore della Dolce Vita è solo agli inizi.
Giugno 2011. Il Café de Paris viene nuovamente confiscato dai militari delle Fiamme Gialle impegnati nell’indagine sui traffici e i profitti della ‘ndrangheta nella Capitale. Il locale di via Veneto, che presenta un valore commerciale di 55 milioni di euro, risulta ufficialmente di proprietà dell’omonima società con sede nel quartiere Prati a Roma, ma in realtà, secondo gli inquirenti, sarebbe nella piena disponibilità della cosca calabrese degli Alvaro. Il boss indiscusso della famiglia mafiosa avrebbe costituito una vera e propria holding criminale nel settore della ristorazione romana: decine di persone a lui riconducibili controllerebbero una rete di dodici società intestate a prestanome e attive nella gestione di noti locali della Capitale. Tra questi spiccano diversi familiari di Alvaro e Damiano Villari, l’autore del clamoroso acquisto del Café a meno di 250mila euro. Come nell’operazione investigativa realizzata due anni prima, i sigilli vengono apposti anche sulle insegne di altri beni riferibili al clan. In totale sono effettuate 17 perquisizioni, che portano al sequestro dei bar “Pedone” nel quartiere Tuscolano e “Il naturista” in zona Salaria.
Al termine delle due iniziative di indagine compiute tra il 2009 e il 2011 la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per 28 affiliati del clan Alvaro, accusati di interposizione fittizia di beni, soprattutto di bar e ristoranti, per eludere la normativa di prevenzione antimafia. Gli appartenenti alla cosca, in altre parole, avrebbero assunto il ruolo di teste di legno a cui i capi dell’organizzazione intestavano gli esercizi di cui erano gli effettivi titolari, per non comparire. Tra i locali finiti nelle mani della cosca, oltre al Café de Paris, vi sarebbero il Gran Caffè Cellini in piazza Capecelatro, il Time out Café di via di Santa Maria del Buon Consiglio, il ristorante La Piazzetta in via Tenuta di Casalotto, il bar Clementi di via Gallia, il bar Cami di viale Giulio Cesare, il bar California in via Bissolati, il ristorante Federico I in via della Colonna Antonina, la società di pulizie Miss Clean. E per esercitarne la gestione il clan avrebbe creato numerose società ad hoc come la Tortuga srl, Astrofood, Trading Multiservice, Time Out Café. Ora, dopo che nel febbraio 2012 il gup Cinzia Parasporo ha fissato il rinvio a giudizio, 25 persone a cominciare da Vincenzo Alvaro e Damiano Villari sono sotto processo davanti ai giudici della settima sezione collegiale del Tribunale penale.
Il dibattimento, iniziato il 28 maggio, è concentrato nell’interrogatorio incrociato di molti testimoni coinvolti a vario titolo in una storia clamorosa alimentata da denaro di dubbia provenienza, e dalla brama di conquistare locali prestigiosi e decaduti del “salotto buono” della Capitale per candeggiare i frutti dei peggiori traffici criminali. Progetto che ha potuto godere per anni di un senso di impunità diffuso, e non ha incontrato alcun ostacolo nella passività, nell’inerzia, e nella connivenza di una parte significativa del tessuto economico della Città eterna.