PECHINO – Sfogliamo rapidamente le agende dei politici internazionali, tanto per capire a che punto siamo: dove ha fatto la prima visita il Presidente egiziano Morsi, una volta conquistato il potere? In Cina. Con quale paese l’Egitto ha ormai il più alto rapporto commerciale? Con la Cina.
Dove è andato appena rieletto – four years more – Obama? In Asia. Intanto, cosa manca? La povera – e fuori dai giochi mondiali – Europa. Ma come direbbe Carlo Lucarelli, questa è un’altra storia.
Proseguiamo con le agende: dove fece il suo primo viaggio il re dell’Arabia Saudita nel 2006, dopo essere divenuto il sire? In Cina. L’Imperatore comunista che incontra il re: furono momenti intensi, con Hu Jintao stretto nel suo grigiore, ad incontrare l’emissario divino arabo.
E ancora: mentre scoppiava la rivolta in Libia nel marzo 2011, dove andò Obama? In Brasile. E dov’era Obama durante la recente crisi di Gaza? In Thailandia.
Lo scacchiere geopolitico quindi cambia: gli Usa dimostrano un interesse molto forte per l’Asia, allo scopo di trovare mercati e partner, nell’ottica di indebolimento della Cina. Il Dragone, dal canto suo, ha sete di petrolio e risorse e ha deciso quindi di entrare nel merito delle politiche medio orientali in modo ben più denso, rispetto al passato. La Cina, ad esempio durante le rivoluzioni dei gelsomini, tenne sempre un atteggiamento duplice: richiedeva a gran voce la stabilità dell’area, ma era pronta a negoziare con il vecchio regime e con i nuovi arrivati. Il caso libico fu esemplare.
Ma lo è anche quello palestinese, per capire la laicità scevra ormai da contenuti ideologici passati della Cina. Mentre supporta ovunque la causa palestinese, la Cina ha aumentato – e di molto – i rapporti con Israele: «il volume del commercio tra i due paesi ha avuto un fortissimo incremento, passando da 50 milioni di dollari agli attuali 8 miliardi. Pechino ha iniziato a partecipare alla costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà Eilat a Tel Aviv e che diverrà pienamente operativa nel 2017; la partecipazione della Cina al progetto “Red-Med” è il riflesso dei grandi interessi strategici cinesi nei confronti delle riserve energetiche nel bacino del Levante e della conquista di uno sbocco per le sue esportazioni nel Mediterraneo orientale» (dati dell’Aspen Institute).
E del resto – in relazione invece alla zona nord africana – oggi in Cina se la ridono: un editoriale del Global Times, quotidiano nazionalista, sottolineava la lezione gratuita che alla Cina è stata impartita in questi giorni dall’Egitto in fiamme: le rivoluzioni e le democrazie, secondo Pechino, sono state sottilmente eterodirette, senza essere la vera espressione popolare. E soprattutto: la democrazia, sostengono i cinesi, pensando chiaramente a casa propria, non è certo un processo che si compie per decreto e in poco tempo. La ex Rivoluzionaria Cina, ormai guarda con sospetto ogni focolaio di rivolta, anche fuori casa propria.
E in questa situazione, come in altre, la Cina allunga i tentacoli. Pensiamo all’Afghanistan: quest’anno la Cina ha mandato là uno dei nove dell’allora Comitato Permanente del Politburo, Zhou Yongkang, il numero nove, ma soprattutto il capo di tutta la sicurezza cinese. O all’Arabia Saudita, di cui parlavamo all’inizio: Cina Sinopec e Saudi Aramco, firmarono un accordo petrolifero che garantiva alla Cina 400mila barili al giorno direttamente in arrivo da una raffineria sul Mar Rosso nella città saudita di Yanbu. È la nuova Via del Petrolio. «Abbiamo bisogno della Cina quanto la Cina ha bisogno di noi – ha detto Khalid Al-Falih in un’intervista alla Cnn subito dopo aver firmato l’accordo – ma il corridoio energetico è solo una parte di esso. L’accordo prevede anche uno scambio di beni e servizi e il commercio in altre aree che aggiungono valore per l’economia cinese e per l’economia saudita».
E con questo mondo arabo la Cina ha continuato a stringere accordi anche recentemente con la visita di Hu Jintao nell’area. Come sottolinea Dentice sulle pagine web dell’ Aspen Institute, «l’Arabia Saudita è il maggior fornitore di petrolio della Cina (45,5 milioni di tonnellate di petrolio, con un +13% rispetto al 2010) e il commercio bilaterale tra i due paesi ammonta a 58,5 milioni di dollari nel 2011. Il Qatar, invece, è il suo maggior fornitore di gas naturale (1,8 milioni di tonnellate, con un+76% rispetto al 2010). Gli Emirati Arabi Uniti, invece, sono il secondo maggior partner commerciale cinese, rappresentando un importante snodo per i prodotti di Pechino nella regione: circa il 70% delle esportazioni cinesi negli Emirati vengono riesportate negli altri paesi del Golfo, in Africa e in Europa».
E torniamo all’Egitto. Il totale degli scambi tra i paesi è salito a 8,8 miliardi dollari nel 2011 a partire da circa 6 miliardi di dollari del 2009, Gli scambi tra Stati Uniti ed Egitto ammontavano a 8,3 miliardi nel 2011, con una lieve flessione rispetto al 2010, secondo i dati del commercio Usa. Il risultato più tangibile – come segnalò il Wall Street Journal – dell’incontro tra Hu Jintao e Morsi, fu l’apertura di una linea di credito dalla Banca cinese alla Banca Nazionale d’Egitto: 200 milioni di dollari.
Scambi commerciali, risorse, ma non solo. La Cina sta tentando di esportare anche nell’area, come un gendarme internazionale, il proprio concetto di weiwen, pietra angolare della propria politica interna e motivo di repressioni costanti, ovvero il mantenimento della stabilità. Per poter fare affari, per non avere problemi interni, specie riferiti all’area autonoma dello Xinjiang, la Cina anche in Medio Oriente predica il mantra del “mantenimento della stabilità”: non vuole scossoni e – monito per il futuro – non ha problemi ad allearsi con chiunque sia in grado di mantenere la situazione tranquilla. Ideale per cosa? Per gli affari, naturalmente.