Ma come si può essere di sinistra difendendo la rendita?

Ma come si può essere di sinistra difendendo la rendita?

Quando il Barone de Gauville spiegò all’Assemblea Nazionale francese che «abbiamo iniziato a riconoscerci gli uni con gli altri e quelli leali alla religione e al Re hanno preso posto alla destra dell’assemblea in maniera da evitare le grida, imprecazioni e indecenze che ha libero sfogo nel campo avverso» erano gli anni della Rivoluzione. E quell’essere fedeli al Re, continua ad essere una traccia distintiva fra destra e sinistra. Anche se il significato è diverso e per molti versi opposto. Il Re adesso è chi vive di rendita, sono le oligarchie estrattive, composte da potentati ecomomico-politici e da gruppi di interesse in cui bisogna inserire anche parte dei sindacati. E a quel Re va contrapposto chi invece produce ricchezza ma è schiacciato dagli interessi di questi potentati parassiti. Per rispondere a Massimo Mucchetti, che sul Corriere fustiga «La strana pretesa dei liberisti, chiedere alla sinistra di fare la destra», bisogna partire da qua. 

Mucchetti ha naturalmente ragione nel porre la vexata quaestio del perché la destra italiana non sia mai riuscita a essere il partito liberale di massa. E che qualcuno nell’intellentualità liberale sia cascato nel berlusconismo dimostra la mancanza di spessore di una parte della nostra cultura liberale. Come poteva un imprenditore che vive di licenze pubbliche e che ha sempre rifiutato di risolvere il conflitto di interessi essere il campione del liberalismo solo perché di là c’erano Occhetto prima e D’Alema poi? Ve lo vedete un liberale inglese chiudere gli occhi davanti a questi temi? Insomma, non c’è dubbio che una vera destra liberale, capace di fiero individualismo e cocciuta indipendenza e non solo di prostrarsi davanti al capo, aiuterebbe meglio a distinguere gli opposti campi. E non c’è dubbio che la sinistra blairiana e clintoniana sia nata come esigenza di sintesi con una vera destra liberale, e che da noi l’operazione di Renzi fosse reso più complicata da quest’assenza. 

Ma l’accordo con l’analisi di Mucchetti finisce qua. Quello che ci interessa in questa sede è proprio quella «strana pretesa» a cui unisce il «ripensamento» su due questioni determinanti:  quella economica «dell’aver cercato di estendere senza più confini l’area dell’economia di mercato all’interno dell’economia e l’infuenza del capitalismo finanziario all’interno dell’economia di mercato» e quella più antropologica della «mitizzazione della cosidetta meritrocrazia». E qui, appunto, il dissenso è totale. 

Accettiamo per esigenze di sintesi come distinzione sinistra-destra quella di Bobbio dove l’asse corre lungo l’idea di uguaglianza, con la destra che considera le disuaglianze come strutturali e la sinistra che cerca invece di combatterle. Il problema non è, non è più, quello dei confini dell’economia di mercato ma piuttosto quello della sua tipologia. Vale a dire che quello che conta è che le istituzioni economico-politiche siano «inclusive» dove con questo termine si intende «quelle istituzioni che assicurano diritti di proprietà e opportunità economiche non solo per le élite ma per una sezione trasversale della società» (Acemoglu e Robinson, 2011) e che non siano invece «estrattive» e cioè «disegnate per estrarre ricchezza e reddito da un sottoinsieme della società per favorire un differente sottoinsieme». Vale a dire che quello che conta è il rapporto fra le sezioni della società che vivono di rendita, una categoria che include parte degli imprenditori come parte dei lavoratori sindacalizzati, e quelle che invece producono ricchezza ricevendo poco o nulla in cambio (i piccoli imprenditori, i lavoratori più giovani, i contadini,….). È il tema esposto in molta della pubblicistica più recente da Why Nations Fail  a Capitalism for the people e che in Italia ha avuto varie declinazioni, come quella di Lugini contro contadini di Gabrio Casati.  

Per dirla brutalmente, nella frase «estendere senza più confini l’area dell’economia di mercato all’interno dell’economia» si rischia di fare una confusione. Se con il primo termine (economia di mercato) si intende quello che gli economisti anglosassoni chiamano rent seeking, i “cercatori di rendita” che vivono di lobby e sistemi bloccati, allora siamo d’accordo che sarebbe ferale estendere quest’area. Se invece si intende profit seeking, i cercatori di profitti che vivono di regole e competizione, allora è invece giusto in termini di crescita econimica e sarebbe egualitario in termini politici nel senso del secondo principio di giustizia di John Rawls quello per cui «ogni persona ha un uguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri».

Nessuno nega gli eccessi del capitalismo anglosassone finito preda dei rent seeker esattamente come il nostro, dove personaggi come Robert Rubin competono agilmente con i Geronzi di casa nostra. Ma non può essere questa la principale forma di competizione di un sistema economico né può essere una consolazione. E ha ragione Tony Judt a ricordare che le privatizzazioni inglesi, con quello sconto di 30 miliardi di dollari (circa il pil della Bosnia) per rendere gli asset pubblici appetibili, sia stato in alcuni casi un vero e proprio regalo ai privati. Ma non può questo essere questa la ragione per invocare un ritorno in grande stile del pubblico. Poi certo ci sono settori come la sanità e la ricerca dove all’economia di mercato vanno posti dei freni, e forse non è un caso che proprio nell’Inghilterra della Thatcher, dove il servizio sanitario offre circa gli stessi servizi del nostro, il ruolo del privato sia inferiore a quanto accade da noi. Quanto successo in Nuova Zelanda, dove hanno dovuto rinazionalizzare i treni, spiega bene quei limiti del privato che Mucchetti, ha analizzato nei suoi libri.  

Ma anche qua, siamo sicuri che sarebbe di destra una proposta come quella di Ichino che pone fine a lavoratori protetti di classe A e lavoratori senza protezione di classe B? Non andrebbe appunto nel senso dell’uguaglianza? E il secondo punto della sua analisi, il porre in dubbio l’importanza della meritocrazia, è davvero così di sinistra in uno dei Paesi Ocse dove il reddito e la professione dei genitori sono più importanti nel determinare il futuro successo dei loro figli, dove l’ascensore sociale è così bloccato che diventare calciatore o velina sono le aspirazioni principali per fare un salto di reddito? Insomma, qua dove l’ascensore sociale è bloccato al piano terra, qua dove il capitalismo è relazionale, è davvero così improprio chiedere alla sinistra di favorire i più bravi e non i più connessi? Non dovrebbe essere la sinistra la prima a farsi queste domande e a non regalare questi temi alla destra? Non siamo davanti alla strana pretesa dei socialisti di chiedere alla sinistra di difendere le rendite? I lavoratori non devono lottare contro quegli interessi che gli impediscono di avere ammortizzatori sociali decenti perché il grosso della spesa assistenziale va in pensioni? O contro quei piccoli/grandi monopoli che sfalsando la concorrenza fanno salire i prezzi e quindi l’inflazione, vera tassa sui poveri tanto più in un paese dove pure l’azienda della presidente di Confindustria viene sanzionata dall’Antitrust per avere fatto cartello? Per fare questo non occorre abbattere le rendite di posizione? Non occorre combattere i soldi pubblici dati alle aziende amiche sfalsando il mercato per quelle brave? Non sono questi i veri nemici dell’uguaglianza?    

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