Storia MinimaMonti nuovo De Gasperi? Simili i meriti ma anche i limiti

Monti nuovo De Gasperi? Simili i meriti ma anche i limiti

Venerdì scorso su queste pagine Peppino Caldarola ha opportunamente ricordato Alcide De Gasperi, a proposito di ciò che Mario Monti avrebbe potuto essere, molti avevano sperato che fosse, e alla fine non è stato in grado di essere.

Forse il tempo ci dirà se per davvero è stato così. Ma è significativo che a circa sessant’anni dalla morte la figura di De Gasperi sia ancora al centro del pensare la transizione politica in Italia. Una transizione che non corrisponde tanto al cambio di regime, quanto a una classe di governo che sa farsi ceto politico di servizio per lo sviluppo e che poi incontra difficoltà, si trova di fronte all’azione di forze che non riesce a superare, oppure non è in grado di saper governare e limitare.
Pensare ad Alcide De Gasperi significa anche questo, se non lo vogliamo trasformare in un mito, ma in un momento politico rilevante e altamente significativo di ciò che significa mettersi “al servizio del Paese”.

È per questo che non è inutile riprendere in mano le parole di Palmiro Togliatti, un avversario, certamente non tenero nei confronti del leader democristiano. Togliatti, infatti, mandato da De Gasperi all’opposizione “per sempre”, scrive nel 1955, a un anno dalla morte di De Gasperi, un lungo saggio su di lui. Non lesinando critiche, anche aspre, ma riconoscendo dove stava la difficoltà di un possibile “buon governo”, anche programmaticamente distante dal proprio progetto.

La difficoltà, spiegava Togliatti, che non era solo un fatto tecnico, ma anche politico, e proprio su quel terreno il leader comunista misurava il fallimento di De Gasperi. Perché risolvere i problemi in alcuni casi implica scontrarsi con i poteri forti, più che venire a patti con loro. Nel caso di De Gasperi era il confronto con la Chiesa. Sessanta anni dopo non ci siamo allontanati di molto.

Palmiro Togliatti, Il lato debole del capo del governo*

In Italia la confessione religiosa, salvo piccolissime minoranze, è una sola. La grande maggioranza della popolazione è di cattolici. È grande la miseria; è scarsa la maturità democratica della società nel suo complesso, per cui le intimidazioni per carpire il voto non suscitano scandalo eccessivo; il fascismo, poi, ha lasciato tracce non lievi nelle masse più arretrate, imponendo loro per venti anni cieca sottomissione ai governanti e ai potenti. Quali potevano essere, in questa situazione, le fortune del partito cattolico nelle competizioni elettorali, se la Chiesa si fosse impegnata a fondo in queste competizioni? La tentazione operò fortemente e ad essa nessuno dei capi dei partiti che furono alleati di De Gasperi dopo il 1948 nemmeno lontanamente pensò si potesse resistere. La ingiunzione ai credenti delle autorità ecclesiastiche, dalla più elevata alle più lontane dal centro, si manifestò nel modo più ampio e nelle forme più diverse. Andò dai messaggi e discorsi pontifici, dalle pastorali dei vescovi, dalle prediche in chiesa, sino alle cerimonie politico-religiose in occasione delle elezioni, all’abuso della confessione, ai miracoli, ecc. Tutto questo doveva assicurare ai partito cattolico una schiacciante prevalenza ‘su tutti gli altri e alla Chiesa, quindi, quella base che essa cercava per tradurre in atto i suoi propositi. Il sistema funzionò, infatti, ma non funzionò nella direzione e nella misura che forse erano nella speranza di coloro che lo attuarono. I partiti democratici e popolari della sinistra (comunisti e socialisti) mantennero, con qualche riduzione, le loro posizioni, resistendo i comunisti senza perdita alcuna persino ai fulmini della scomunica, un tempo così terribili. Comunisti e socialisti non giunsero a conquistare la maggioranza per via di consultazione democratica, come forse sarebbe avvenuto senza l’impegno elettorale della Chiesa, ma le radici che essi hanno nel popolo risultarono più salde di quanto tutti credessero. Non resistettero invece gli altri partiti, che con la Democrazia cristiana collaboravano, secondo la degasperiana formula centrista. Questa formula fu quindi cosa morta sin dall’inizio, ma chi l’aveva uccisa era il partito cattolico stesso. L’aveva seriamente colpita, prima, col suo accordo organizzato con gli esponenti delle vecchie classi dirigenti; le dava il colpo di grazia, poi, bloccando a suo favore, per mezzo della Chiesa, la grande massa dei voti delle masse politicamente non qualificate. Dal 1946 sino al 1953, e cioè per tutto il periodo della direzione governativa degasperiana; tutte le considerazioni che si possono fare sulle vicende politiche non sono valide se non si tiene conto di questo fatto fondamentale, di efficacia decisiva. Le lodi che si fanno al capo democristiano per avere tenuto fede alla formula centrista anche dopo il 18 aprile, che gli aveva dato la maggioranza assoluta, hanno scarsissimo valore. Si trattò infatti puramente di una formula, alla quale corrispose, nei fatti, la sempre più evidente trasformazione del programma sociale del partito democristiano in puro fattore strumentale, l’indebolimento progressivo, fin quasi alola scomparsa, dei partiti che erano al governo coi democristiani, e la graduale avanzata della Chiesa nello sforzo di sottomettersi tutto l’organismo dello Stato, in forme nuove, che possono non essere avvertite da chi guardi solo alla esteriorità degli atti ufficiali, ma diventano sempre più evidenti prima in settori particolari (assistenza, scuola), poi negli indirizzi generali dell’attività di governo e persino nella politica estera, quando sotto il mantello europeistico i partiti cattolici dell’Europa occidentale tentano di scartare dalla direzione politica di questa parte dell’Europa tanto i vecchi partiti borghesi (radicalsocialisti francesi, ecc.) quanto la socialdemocrazia, e dare così vita a un grande blocco internazionale di forze clericali.
Alcide De Gasperi fu senza dubbio, sulla scena politica italiana, il principale tra gli attori palesi di questo ampio e complicato processo di trasformazione. La mia opinione è, però, che ne fu in pari tempo la vittima, e nell’affermarlo, com’è evidente, da in sostanza un giudizio positivo di alcuni momenti della sua personalità, di alcune delle posizioni che, come si è visto, risultano dalle sue elaborazioni storiche. Il movimento nel quale fu preso e di cui fu l’esponente lo portò a cancellare nell’azione, se non a dimenticare, quelle posizioni. Prevalsero gli elementi negativi della sua persona, il conservatorismo, il fanatismo, la incomprensione del movimento socialista, la chiusa incapacità di comprendere situazioni e movimenti nuovi, la tendenza alla contrapposizione maniche a di inconciliabili estremi. Se si vuole considerarlo iniziatore di un processo di allargamento democratico della base dello Stato italiano tra le masse popolari, come oggi si pretende, si urta contro il fatto incontrovertibile che fu opera sua la più profonda delle fratture tra le masse popolari avanzate (e non piccole minoranze, ma milioni e milioni di cittadini) e quello Stato che proprio l’azione di queste masse ha fondato. Se si vuole dargli il merito, per noi assai discutibile, della nuova impostazione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, si ha un personaggio contraddittorio, che avrebbe operato in senso del tutto opposto a ciò che pare dovesse sgorgare dalla sua esperienza ed essere uno dei caposaldi della sua concezione politica. E la contraddizione venne fuori, nello sviluppo della sua azione politica, in modo quasi drammatico, alla fine.

*Cfr. Palmiro Togliatti, È possibile un giudizio equanime sull’opera di Alcide De Gasperi?, in “Rinascita”, XIII, n. 5-6, maggio-giugno 1956, poi ricompreso in Palmiro Togliatti, Momenti della storia d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1963, pp. 267-269.