Vedi alla voce sussidi: quando le esigenze dell’austerity incrociano il protocollo di Kyoto la miscela è potenzialmente rivoluzionaria, soprattutto in Medio Oriente.
Per decenni i governi dell’area hanno alleggerito i prezzi di alcuni beni, tra cui la benzina, ricorrendo alle casse statali, allo scopo di mantenere la stabilità sociale. Una politica che non solo ha aperto una voragine nei conti pubblici, ma ha contribuito ad elevare il livello delle emissioni di CO2, con un notevole impatto – lamentano gli ambientalisti – sul global warming.
Nel solo 2011 i sussidi per la benzina nel pianeta hanno raggiunto la cifra record di 523 miliardi di dollari, con una crescita del 30 per cento rispetto all’anno precedente. In alcuni casi i prezzi bassissimi del carburante derivano dal fatto che il Paese è un grande produttore di petrolio. In Arabia Saudita, secondo l’agenzia economica Bloomberg, il costo alla pompa è di soli 61 centesimi di dollaro a gallone (quasi quattro litri), in Venezuela, grazie alla generosità interessata di Chavez, addirittura 9 centesimi. Ma anche in Stati importatori di materie prime, come Egitto e Giordania, i prezzi sono calmierati. Ad Amman, ad esempio, si superano di poco i tre dollari a gallone.
Si tratta di misure indispensabili per la sopravvivenza politica dei governi. Infatti, quando il governo giordano ha tentato a più riprese, nel corso del 2012, di tagliare i sussidi, la reazione della piazza è stata violenta. Le proteste più recenti, a fine novembre, hanno messo per la prima volta nel mirino la stessa figura di re Abdallah. D’altra parte, però, gli aiuti diventano sempre più insostenibili per le casse pubbliche. Il deficit di bilancio di Amman ha raggiunto 3 miliardi di dollari, il Fondo Monetario Internazionale ha promesso un prestito di 2 miliardi di dollari, ma esige politiche di austerity, e ben 2,3 miliardi di dollari del budget statale se ne vanno in sussidi, per la benzina e altri prodotti.
A queste esigenze di carattere economico se ne aggiungono altre, di tipo ambientale. L’Ocse calcola che, se i contributi per la benzina fossero aboliti, le emissioni di gas calerebbero del 6 per cento. Inoltre, i governi sarebbero incentivati ad investire in fonti alternative di energia, diversificando al tempo stesso la propria struttura economica. L’argomento è stato discusso nel corso recente summit sul cambiamento climatico, tenutosi a Doha, in Qatar, primo Paese al mondo per emissioni pro capite di CO2. L’obiettivo dichiarato dei governi mediorientali è quello di abbattere gli aiuti del 20 per cento, entro il 2035.
Il rischio è quello di scatenare una violenta reazione sociale. Non c’è solo il caso della Giordania. In Indonesia le proteste dello scorso aprile hanno fatto desistere l’esecutivo dall’aumentare del 33 per cento il prezzo della benzina. A settembre nella West Bank un tentativo analogo del premier Salam Fayyad ha avuto identica sorte. Persino in Nigeria, il più grande produttore di petrolio del continente africano, le battaglie di piazza tra dimostranti e polizia hanno contribuito a fare alleggerire il piano draconiano che prevedeva la riduzione dei sussidi, con conseguente raddoppio del prezzo dei carburanti.
Gli economisti dell’Ocse non trascurano l’impatto sociale dei tagli e ripetono quanto sia difficile e pericoloso modificare abitudini inveterate. La mina, sostengono a Château de la Muette, si potrebbe disinnescare in un solo modo, sostituendo gli aiuti indiscriminati, di cui beneficiano anche gli strati più ricchi della popolazione – che possiedono, tra l’altro, macchine di maggiore cilindrata – con sussidi mirati, come i voucher benzina, destinati a chi ha realmente bisogno.