Perché in Italia scegliamo sempre lo status quo?

Perché in Italia scegliamo sempre lo status quo?

Niente da fare: se in Italia c’è da scegliere tra due persone, si tende a privilegiare quella più distante dalle idee liberali, quella più incline a difendere lo status quo, quello che non intende aprire alcuno spazio al mercato, ridurre il peso dello Stato, cassare scaffali di norme e leggine.

Ogni istinto anche vagamente libertario sembra suscitare timore tra i nostri connazionali e induce a puntare, al solito, sull’usato sicuro di risposte basate su spesa pubblica e regolamentazione. In parte, la vittoria di Pier Luigi Bersani su Matteo Renzi può essere letta in questo modo, anche se il primo partiva certamente avvantaggiato, poiché disponeva dell’apparato di partito e soprattutto del sostegno di larga parte di quanto resta del Pci. In questa fase di nuovismo e antipolitica, in fondo il sindaco di Firenze avrebbe però potuto avere qualche chance in più, cavalcando una specie di grillismo dal volto umano e di giovanilismo à la page. E invece niente da fare: tra due opzioni, quella meno liberale è risultata vincente.

Vale a sinistra come vale a destra. Durante il lungo regno berlusconiano il vero “uomo forte” della politica economica è stato Giulio Tremonti, eppure qualsiasi altra opzione sarebbe stata – con buona probabilità – meno ostile al mercato e alla proprietà privata. Certo pochi tra gli economisti d’area Forza Italia si sarebbero messi a celebrare le lodi del ministro Colbert e, soprattutto, ad allestire quell’apparato di repressione tributaria che oggi, grazie anche alle innovazioni del governo Monti, ha ormai cancellato ogni privacy e sta pure piegando quel poco che resta dell’economia produttiva. Non è quindi una questione di destra e sinistra, e d’altra parte vorrà pur dir qualcosa se questi due termini – da noi – sono primariamente associati a fascismo e comunismo. Deve esserci qualcosa, tra le pieghe dell’identità italiana, che rende assai minoritarie le tesi che risalgono a John Locke e Thomas Jefferson e condanna a posizioni marginali perfino quanti ambirebbero solo a far girare un poco di aria nuova.

Con ogni probabilità, le ragioni di tale situazione sono molte. Ci sono problemi tutti interni alla formazione della nostra cultura accademica: da Croce a Gentile, da Bobbio a Geymonat. Ma c’è molto altro e di più. L’Italia – ahimé – ha dato al mondo il fascismo (deteniamo il copyright), e per vari decenni ha avuto il partito comunista più votato, potente e organizzato dell’intero mondo occidentale. Da nessuna parte d’Europa, inoltre, il terrorismo è stato tanto feroce e duraturo quanto da noi, ma quella ovviamente fu solo la punta dell’iceberg di una cultura pervasa di istinti dirigisti, autoritari, volti a pianificare la vita altrui in ogni dettaglio e disposti a sacrificare ogni scrupolo sull’altare dell’ideologia.

Anche quella che viene chiamata, sui nostri libri scolastici, la fase “liberale” della storia italiana – successiva all’Unità risorgimentale – a ben guardare di liberale ha davvero poco: se uno pensa alla feroce repressione dell’opposizione borbonica nel Mezzogiorno, al Kulturkampf condotto contro la Chiesa cattolica, al centralismo amministrativo (nonostante l’opposizione di Francesco Ferrara e Marco Minghetti), ai plebisciti fasulli, all’incremento della pressione fiscale a partire dalla tassa sul macinato e soprattutto allo sviluppo, in pochi decenni, di politiche protezioniste e perfino imperialiste. Non penso avessero del tutto torto – pur sulla base di analisi assai diverse – quanti (da Gramsci a Salvemini, a Gobetti) hanno denunciato come l’unità italiana sia stata realizzata fin dall’inizio in spregio delle fondamentali libertà e secondo un ben preciso progetto di egemonia politica ed economica.

Come spiega bene l’economista Vito Tanzi nel suo studio Italica. Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia (edito nelle scorse settimane da Grantorino), i costi della conquista regia gravarono fin dall’inizio sul Mezzogiorno e quella che era un’area a bassa tassazione fu presto colpita da imposte gravose e, in generale, da una legislazione assai nefasta. Le popolazioni meridionali non conoscevano l’emigrazione prima del 1861, ma in seguito dovranno a abituarsi a fare fagotto e andarsene: cercando fortuna nelle Americhe. Cosa c’entra tutto questo con la cronaca delle ultime ore? Il nesso esiste ed è importante, dato che negli ultimi decenni il ceto politico ha provato a rispondere ai problemi più annosi adottando ricette tanto semplici quanto disastrose: con la moltiplicazione dei privilegi, con la creazione di innumerevoli posti pubblici, con il crescente consolidamento della commistione tra politica ed economia.

Forse in Italia non abbiamo il welfare più costoso del mondo, e nemmeno la politica industriale più corposa, o il sistema di regolamentazione più invasivo, ma da nessuna parte l’insieme dell’intervento pubblico raggiunge i nostri livelli. E quando, in un modo o nell’altro, l’intera società finisce per essere un arcipelago parastatale, è difficile che vi siano opportunità per coloro che vorrebbe aprire alla concorrenza e sarebbero orientati a restituire un poco di responsabilità ai vari soggetti della vita civile ed economica. La società italiana non è uniforme e certamente questo innamoramento per le logiche statali è maggiore al Sud, dove più forte è la presenza dei partiti e dei poteri statali. E non è un caso se in una realtà come il Veneto, invece, oggi si guardi all’ipotesi di andarsene – entrando nel club delle aree secessioniste: assieme a Scozia, Catalogna, Fiandre ecc. – come all’unica strada percorribile.

Una cosa è ormai chiara: l’Italia non appare facilmente riformabile in senso liberale. Così com’è, il Paese è destinato a restare aggrappato alle logiche che hanno mandato in pensione (dopo varie lotte sindacali) un gran numero di dipendenti pubblici dopo soli 15 anni, sei mesi e un giorno di lavoro. Gli errori però si ripetono e ci si affida sempre allo stellone, illusi che si possa sopravvivere senza cambiare alcunché, pronti – ormai – a ricevere gli aiuti europei e ad avvitarsi nei drammi che caratterizzano le economie alla deriva. In fondo, bisogna sempre tenere presente che l’Italia tardivamente unificata nel corso del diciannovesimo secolo è una brutta imitazione della Francia: da cui, non a caso, ha copiato i prefetti e i questori. Ma della Francia abbiamo i difetti senza avere i pregi, poiché quanto meno oltre frontiera l’ideologia centralista è associata a un orgoglio nazionale che, in fin dei conti, fa sì che lo Stato funzioni un po’ meglio.

Da noi, nemmeno quello. Senza considerare, comunque, che anche la Francia se la passa male, dato che non è in grado di gestire un modello sociale tanto deresponsabilizzante e, in fin dei conti, irrazionale. Dagli esiti evidentemente illiberali. Come disse al riguardo Friedrich von Hayek, «quando la Francia sarà liberale, tutto il mondo sarà liberale». Forse quella formula vale anche per quella versione in minore dell’Esagono che i padri della Patria, un secolo fa, hanno messo assieme. Il trionfo di Bersani, insomma, non è venuto per caso.

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