Se proprio non si vuol essere sbrigativi e ricorrere a “ofelè fa el to mesté”, un detto milanese noto anche al di sotto del dio Po, in questi giorni di feste si potrebbe ricorrere a Ralph spaccatutto per giungere alla virtuosa conclusione che in fondo nella vita è meglio rispettare il proprio ruolo, svolgere al meglio i compiti a noi assegnati che prestarsi a facili e pericolose invasioni di campo.
Forse Mario Monti non se lo sarebbe aspettato, ma più che della sua “salita” in campo colpisce quella di Pietro Grasso, numero uno dell’Antimafia. Un simbolo. Non all’altezza di Falcone e Borsellino per ovvii (e per lui benefici) motivi. Comunque un simbolo. E allora se un simbolo sceglie di cambiare campo ti viene da pensare che quel raggio d’azione in fin dei conti serva a poco, venga considerato, persino dal suo più autorevole esponente, inutile. È un duro colpo per la magistratura. Ben più di qualsiasi invettiva di quel signore che adesso va spesso in tv.
La toga, che forse era un simbolo per migliaia di giovani che un domani avrebbero voluto imitarlo, lancia un messaggio: “La magistratura non serve, quel che conta è la politica”.
Per Ralph spaccatutto il discorso è diverso, forse. A lui non venivano riconosciuti meriti. Di questo si doleva. Era il “cattivo” del videogame, certo, ma il successo era anche merito suo, non solo del perfettino Felix aggiustatutto e del suo miracoloso martello riparatore. Chissà, forse Pietro Grasso dev’essersi sentito come Ralph. Non un cattivo, certo, ma in Italia gli unici magistrati antimafia realmente considerati sono quelli che non ci sono più. Uccisi sul lavoro. Allora sì che ti srotolano i tappeti. Un po’ troppo tardi, deve aver pensato Grasso nel suo ufficio di via Giulia, nel cuore di Roma, in linea d’aria a cento metri da Regina Coeli e a qualche battito d’ali in più dal Vaticano.
La vita come una missione, sì. In fin dei conti, però, nessuno che ti si fili più di tanto. Anche quando la mafia, la camorra e la ’ndrangheta subiscono menomazioni importanti grazie allo Stato, il merito va ai palazzi della politica. Al ministero dell’Interno. A quei politici che magari la parola mafia nemmeno la nominano più. E poiché la vita non è un cartone della Disney, Pietro Grasso non tornerà sui suoi passi come Ralph, non accetterà la sua missione, non riuscirà far comprendere l’importanza del suo ruolo. Semplicemente, come Ralph, vuole essere invitato alla festa per l’anniversario del videogame e avere il suo ruolo sulla torta.
Vanità, avrebbe chiosato Al Pacino ne L’avvocato del diavolo. E in questo scorcio di fine 2012 quello di Grasso è l’ultimo colpo inferto in chi, in fin dei conti, ancora spera in un’Italia equilibrata in cui la politica abbia lo spazio che le compete (nient’affatto debordante) e in cui le campagne elettorali siano competizioni cui si assista con sufficiente distacco una volta ogni cinque anni. Non rodei campestri, sempre più ravvicinati tra di loro.
Fortuna che ci abbia pensato Ang Lee a riportarci in un’altra dimensione. Troppo interiore e profonda per trovare qualche appiglio nella politica da twitter con professori l’un contro l’altro armati. Due ore e più immersi in una tripla dimensione, presi per mano da un ragazzino che sfugge a un primo naufragio e combatte per sfuggire a un secondo. Non c’è pietra di paragone, non la si trova. Nessuno del nostro scacchiere politico (con tutto il rispetto per Ralph spaccatutto, fantastico personaggio) che possa essere avvicinato a Pi, Piscine Molitor Patel, ragazzo indiano che sin dalla scuola ha dovuto sbrigarsela con l’ingombrante nome e stupire tutti riempiendo lavagne e lavagne con l’esatto numero del pi greco pur di sfuggire allo spregiativo nomignolo di “piscione”.
Non c’è pietra di paragone per un ragazzo che si appassiona in egual misura al cattolicesimo, al buddismo e all’induismo, legge Camus e Dostojevski, cresce in uno zoo, si emoziona, ama la musica, e sogna un rapporto d’amicizia con una tigre, Richard Parker. E poi, un giorno, resta su una scialuppa di salvataggio con lei, una iena e un orango nel pieno dell’oceano, mentre i genitori sono colati a picco in una nave che avrebbe dovuto portarli in Canada.
E no. Non c’è nulla dello scacchiere italiano che uno spettatore possa ritrovare nel film di Ang Lee. C’è l’intensità, c’è la sfida con se stessi, ci sono, soprattutto, la vita, la morte, e quel che di noi non vogliamo vedere. E, soprattutto, non c’è inganno. E se c’è, è solo una metafora profonda che ti acchiappa lo stomaco e fa i conti con quel che siamo: merda e sangue. Come anni addietro un ispirato Lars von Trier ci illustrò in Dogville.
Magari quelli che non hanno la puzza sotto il naso ritroveranno sicuramente il nostro Paese nei Due soliti idioti, ciarleranno dell’Italia berlusconiana, volgare e demenziale. Tutto vero, per carità, se non che la pellicola finora record d’incassi (meglio guardarsi in faccia che nascondere la polvere sotto al tappeto) contiene in sé già la critica, quegli spezzoni che ci mostrano il pubblico del film. È inguardabile per certi versi, certo, anche se qualche risata te la strappa (io ho riso), ma quel messaggio può colpire: non siamo noi che facciamo questi film, siete voi che li volete. Questo sì che assomiglia tanto a quel che ci sorbiamo tutti i giorni.