La deadline dovrebbe essere domani 28 dicembre, quando l’assessore regionale alla Sanità, Mario Melazzini, nella seduta della giunta di fine anno illustrerà il piano di riorganizzazione della sanità lombarda, e si capirà dove e come si abbatterà la mannaia. Con la riduzione dei punti nascita, eliminazione di reparti doppioni, soprattutto delle cardiochirurgie, delle chirurgie vascolari, delle emodinamiche, mentre verranno rivisti alcuni accreditamenti per le strutture private, in base alla qualità e al numero delle prestazioni. Diminuiranno anche gli organici di infermieri e medici in esubero, visto il blocco del turn over, tranne nei reparti che lavorano sul fronte delle emergenze per i quali è stata strappata una deroga. L’ansia da prestazione sanitaria cresce e non si sa ancora quali piani di organizzazione aziendale, presentati alla Regione in questi giorni dai singole strutture sanitarie pubbliche per il 2013, otterranno il nulla osta. In ogni caso i dati sono dirimenti. Fra tagli precedenti e quelli voluti dal ministro della Sanità, Renato Balduzzi, che sono finiti nel ddl sulla Stabilità, in Lombardia, nel 2013 ci saranno 225 milioni di euro in meno e un taglio di 2337 posti letto (si passa da 39.968 a 30.512, ma ad avere più problemi saranno i pazienti post-acuti che hanno bisogno di riabilitazione e assistenza per i quali si passa da 8.038 posti letto a 7119). In attesa che si scateni la battaglia per la sopravvivenza, ecco cosa abbiamo visto e sentito in un viaggio diurno e notturno fra un grande ospedale pubblico, nonché polo universitario, il San Paolo, e quello che è considerato il simbolo dell’eccellenza medica del settore privato, il San Raffaele, messo in ginocchio da un crac economico, e poi rilevato da Giuseppe Rotelli.
Atto primo. Alle 8 di sera cala il silenzio all’interno di un reparto di una medicina generale dell’ospedale San Paolo, che vanta alcune eccellenze specialistiche e molte aree grigie, fra cui 18 milioni di euro di debiti. Arrivano due infermieri del turno di notte, che si scambiano notizie sui pazienti con quelli che invece hanno finito il proprio. C’ è un solo medico di guardia, che deve vegliare da solo su sei reparti. Sguardo stravolto, corre, risponde al cicalino, senza mai fermarsi, districandosi fra varie emergenze, perché ha scelto di lavorare in trincea. Laddove fare il medico internista è un lavoro eroico, nessuno ci vuole andare perché le risorse sono poche, l’organico è ridotto, e i reparti sono diventati dei cronicari, sempre sovraffollati. O, per usare lo slang degli infermieri, si ricoverano soprattutto “nonnetti spannati”, anche con problemi neurologici perché l’estate scorsa i reparti di neurologia e nefrologia, sono stati chiusi per permettere agli infermieri di poter andare in ferie (sic) e ancora non sono stati riaperti, mentre si sono create doppie equipe di medici e primari, che convivono negli stessi reparti.
E come se non bastasse, dalla vigilia di Natale all’Epifania, chiuderanno anche quelli di ginecologia e andrologia, come mi farà notare poi la dottoressa Loredana Frattini, cardiologa e rappresentante della FipCgil medici di Milano. Un paziente molto paziente esce dalla sua stanza per chiedere se può avere un cuscino. Mortificata, un’ infermiera, risponde che non ne hanno più. «Neanche la coperta?», insiste il paziente, un anziano signore, uno dei pochi che in questa corsia si regge in piedi da solo. «Le coperte ci sono», sorride lei, rassegnata, dopo avermi detto che i pasti arrivano dalla mensa in stato disastroso, a dispetto di tutte le norme igieniche. E che non ci sono mai neanche i camici sufficienti per i pazienti. «O li portano i parenti oppure capita che rimangano nudi. E poi siamo costretti a cambiare le lenzuola ogni due giorni. Non so se sia colpa del servizio lavanderia o per problemi di budget, ma qui è sempre così» .
Un rumore spezza il silenzio della notte. Si sente il passo esitante di un’anziana signora, che deambula in cerca della sua stanza. «Mi sono persa», dice. Un infermiere l’accompagna verso il suo letto, scuote la testa, mi guarda e aggiunge: «Basta, Io faccio domanda di andare al pronto soccorso. Non ce la faccio più. Dobbiamo assistere pazienti molto complessi. Hanno troppe patologie croniche. Vede quella stanza? Ecco lì sono in tre: tutti confusi», afferma, per usare un eufemismo. «Se, come capita spesso, qualcuno cade dal letto e deve essere trasportato per fare una tac, su due infermieri che devono assistere 30-32 pazienti ogni notte, ne rimane uno solo in reparto. Qualche giorno fa abbiano dovuto fare addirittura un Tso, un trattamento sanitario obbligatorio, e per evitare che si facesse male, lo abbiamo dovuto contenere e legare al letto, anche se non siamo un’unità psichiatrica. Da un punto di vista etico, mi ripugna». I due infermieri del turno di notte, preparano le ultime terapie, i prelievi da fare all’alba, prima dello smonto, lo chiamano così, il giorno di riposo dopo il turno di notte.
Ogni tanto si sente un lamento, qualcuno che urla, qualcun altro che ancora esce dalla stanza per poi dire che si è perso. C’è pure un piccolo alberello natalizio con dei pacchetti “vuoti”, fanno notare, appesi fra i rami, come se quell’aggettivo, “vuoto”, fosse una metafora. E in effetti, è proprio un senso di vuoto, horror vacui, che si respira in corsia. Nonostante lo sforzo e l’impegno di infermieri e medici. Il medico di guardia riceve una richiesta di ricovero e scatta la sindrome 33. Nel senso del trentatreesimo paziente, che rappresenta il segnale di allarme. La corsia è in overbooking. Pazienti con tumori, anziani che vanno e vengono sempre con le stesse patologie croniche, insufficienze renali, ictus, etilisti che si fanno ricoverare anche per un mal di testa. Si trova di tutto in un reparto di medicina generale. Il medico di guardia parte a testa bassa per trovare in un altro reparto un posto letto e torna trionfante perché ci è riuscito, ma mezz’ora dopo, arriva una telefonata dal pronto soccorso. L’infermiera ascolta e poi pone una sola domanda: «È brutto?». Non nel senso estetico, ovviamente. Lei vuole solo sapere se deve accogliere un altro paziente «spannato», o se, come spera, il nuovo paziente è autosufficiente.
«Questa è una notte normale», mi dicono. «Quasi tranquilla». Secondo un altro medico l’anno scorso a dicembre è stato peggio. «Erano finiti persino i farmaci», spiega il medico. «In effetti questo è un periodo quasi fortunato», dirà poi la sindacalista Loredana Frattini. «Prima c’erano anche i letti bis, barelle in corsia. I primari però sono 38, perché i medici associati e i professori ordinari hanno diritto, secondo il piano di organizzazione aziendale, a un ambulatorio. È una follia». È così scopro che nei grandi ospedali pubblici, con gli ulteriori tagli che verranno si tenderà, ma già lo si fa, ad accettare pazienti acuti, e rimandarli a casa in fretta appena sono stabilizzati. In teoria si cerca di rifiutare i cosiddetti sub-acuti, con patologie croniche, che poi però, se non trovano aiuti e sostegno grazie all’assistenza domiciliare, nonostante il progetto sperimentale di assistenza territoriale Creg, che però funziona a Intermittenza (il Fondo per le non autosufficienze e’ passato dai 31.839.131 euro nel 2009, a 30.839.131 nel 2010, 7.420.000 nel 2011), ritornano indietro al pronto soccorso, soprattutto nei week-end, quando mancano i medici di base (ed ecco perché nella riorganizzazione prevista dall’assessore alla Sanitá si prevede anche che gli ambulatori dei medici di base siano aperti sempre h 24).
E così, oltre a chi arriva in ambulanza per un’urgenza, si presentano da soli anche persone che hanno febbre alta, mal di testa, una fitta al cuore, un dolore intestinale, che li spaventa. Molti vengono ricoverati anche per l’effetto collaterale della «medicina difensiva», dai parenti che «danno fuori di matto», ironizza ancora la cardiologa sindacalista. Ma se entrare al San Paolo da malato è facile, uscire da sani è quasi impossibile, soprattutto se è notte fonda. Gli ascensori non funzionano. La porta che riconduce all’ingresso centrale è chiusa. Bisogna girare a piedi intorno all’ospedale, per cortili e sotterranei deserti, e tornare alla portineria, chiusa, dove tutte le luci sono spente e l’addetto alla portineria è svanito nel nulla. E così bisogna scavalcare il cancello come un ladro che scappa a mani vuote, senza refurtiva, per ritrovarsi in strada. Con un senso di desolazione, opprimente, molta gratitudine verso quei dottori e infermieri che, nonostante i tagli dei budget continuano a tenere in corsia anziani soli, spannati o meno, che hanno bisogno di assistenza. E anche l’intima speranza di non aver bisogno, mai, di essere ricoverati in una medicina generale del San Paolo.
Atto secondo. Sono le nove di mattina, all’ospedale San Raffaele. Dove si arriva con un trenino interno, si supera una affollata corsia sotterranea con un bar, negozi, centri commerciali, per sbucare sotto la famosa cupola, dove da settimane è stato installato un presidio permanente dei lavoratori, infermieri, ausiliari, che da mesi protestano contro la richiesta dell’azienda di ridurre il loro stipendio o di applicare contratti privati, previsti appunto per gli ospedali privati, perché in esubero. La trattativa è fallita, perciò probabilmente,come spiega Angelo Mulè della Rsu, verranno licenziati 244 lavoratori del comparto sanitario. In assemblea, il clima è concitato. I lavoratori non vogliono mollare. E chiedono alla proprietà dati trasparenti per dimostrare la necessità degli esuberi conclamati, per usare un termine medico. I toni sono esasperati.
«Resistiamo, non facciamoci prendere in giro», urlano i sindacalisti. «Mi hanno chiesto di catalogare come sterile dei materiali aperti da una busta, che erano stati usati solo in parte. Mi sono rifiutata. Non mi era mai successo prima», mi racconta un’infermiera. Finita l’assemblea, in centinaia si precipitano davanti all’uscio dell’A.D del San Raffaele, Nicola Bedin, per farlo uscire da suo studio. Con slogan e cori da stadio. Lui poi chiarirà in un comunicato il fallimento della trattativa e le condizioni critiche dello stato dei conti, che prevede una riduzione del 9% delle retribuzioni per il comparto sanitario, mentre non è chiaro cosa succederà ai medici, di cui oltre alla metà lavorano con partita Iva, ma la paura si diffonde come un virus non ancora catalogato. Nel documento aziendale si legge che al 30 settembre 2012, fra tagli, mancati rimborsi da parte della Regione, e piani di risanamento,il San Raffaele registrava una perdita di 35 milioni di euro. Compresi i 17 milioni non rimborsati dalla Regione, come previsto dalla delibera del 6 agosto. Secondo l’assessore alla Sanitá dipende da un calo delle prestazioni, dovute ai problemi interni, ma i medici smentiscono.
Atto terzo. Il giorno dopo al pronto soccorso del San Raffaele, vengo accolta da una segretaria agitata per un’ulteriore assemblea dei lavoratori, che ha bloccato e fatto slittare gli interventi ordinari nelle sale operatorie. Il primario Michele Carlucci mi guida nel suo centro di eccellenza. Nel reparto di urgenza chirurgica e nel pronto soccorso, le risorse non vengono certo lesinate. Qui l’atmosfera è completamente diversa. Muri azzurri, ridipinti ogni mese, assicura. Un albero di Natale rigoglioso, e un primario di pediatria che, per coprire una temporanea assenza di organico, copre il turno in ambulatorio, anche se ai primari non spetterebbe fare i turni al pronto soccorso. In sala di attesa ci sono solo alcuni parenti con i volontari. Poche barelle in una sala apposita, solo un ragazzo in corsia e cinque infermieri in turno.
Da questo pronto soccorso passano circa 60mila persone all’anno, budget 8-9 milioni di euro. «Io ritengo che per far fronte ai tagli, basti avere una capacità organizzativa», spiega. «Anche se davanti a un malato che ha bisogno, me ne frego di sforare il budget. Ieri sera é arrivato un giovane con un cancro invasivo, terminale, il tumore gli ha ingrossato lo stomaco. Non posso operarlo, né curarlo, ma non ho avuto il coraggio di mandarlo via. Lo tengo qui e gli allievo il dolore. D’accordo, ormai ora dobbiamo essere tutti manager, ma non possiamo dimenticare che siamo medici. Così, mi tengo anche un paziente in chirurgia, ormai stabilizzato dopo il suo scompenso cardiaco, perché è anziano, solo e nella Rsa dove stava prima non c’è più il suo posto letto. Almeno finché non trovo dove trasferirlo. Ovvio, sarà sempre più difficile, con i tagli e le prestazioni non rimborsate, ma con una buona organizzazione si può ancora usare il cuore, prima del codice a barra del paziente, e non si può dequalificare il San Raffaele che, nonostante tutti i problemi, deve rimanere un polo di eccellenza».
Chissà se la pensa così anche l’assessore alla Sanità, Mario Melazzini, che abbiamo incontrato successivamente per chiarire alcuni punti della riorganizzazione della sanità lombarda. Fa subito notare che al San Raffaele ci sono tre reparti di oncologia. Troppi? «I cittadini non ci devono rimettere», chiarisce subito come fanno tutti quelli che sono obbligati a tagliare i budget e alo stesso enunciare principi etici non facili da coniugare in questa congiuntura economica. «Io non credo che in Lombardia siano necessari 50 reparti di emodinamica. Non voglio spingermi a dire che ci sono stati molti sprechi (anche se lo pensa, lo si intuisce dalla smorfia che fa mentre parla), ma sono certo che non c’è stata molta attenzione. In ogni caso sono convinto che con la centralizzazione delle gare per l’acquisto dei beni di servizio, si possono quasi recuperare i fondi tagliati per il 2013. La riorganizzazione deve essere fatta, però, secondo le esigenze del territorio. Le faccio un esempio. Se un piccolo ospedale di una comunità montana ha un punto nascita, che si trova molto lontano da un ospedale piu grande ed è difficile da raggiungere, sarebbe folle eliminarlo». L’assessore non lo conferma, ma secondo alcune indiscrezioni, molti piani di riorganizzazione aziendale, come quello del San Paolo, non hanno superato l’esame perché riproponevano gli stessi schemi, stessi budget, stesso numero di primari, stesse zone d’ombra. Nel frattempo, però, il documento delle Regioni elaborato il 6 dicembre arriva a un’altra conclusione. E cioè che il sistema sanitario nazionale non può sostenere questi tagli che rischiano di far implodere il sistema sanitario nazionale.
Chi ha ragione? I sindacati, che denunciano la chiusura notturna del pronto soccorso ortopedico del Gaetano Pini, le difficoltà delle cliniche private convenzionate, come Multimedica, che non possono più accettare prenotazioni per esami e interventi per esami e devono far fronte a migliaia esuberi del personale? Hanno ragione loro che su tutte le bacheche degli ospedali hanno appeso l’elenco delle situazioni critiche, come al Monzino, polo cardiologico di Monza, che opera fuori budget, mentre l’ospedale Palazzolo di Bergamo ha fermato le sale operatorie per interventi ordinari per un mese fino al 7 gennaio del 2013? O ha torto chi ritiene che tre oncologie al san Raffaele, seppur specialistiche e di eccellenza, sono troppe, mentre alcune emodinamiche, in Lombardia sono 50, inadeguate oltre che costose e ci sono troppi reparti costruiti secondo criteri clientelari per creare feudi per i primari? Sono condivisibili le regioni dei tecnici sanitari delle Regioni, che da mesi combattono contro il governo, con previsioni apocalittiche?
Ha ragione il sindacato dei medici dirigenti, Anaao, che si batte per evitare il decurtamento del 45% dei contratti, impossibili da rinnovare per via del blocco del turn over, il cui vicesegretario, Sergio Finazzi, si chiede perché siamo stati progettati troppi ospedali in project finacing che, fra affitti e interessi dei mutui hanno tolto ingenti risorse alla cura e all’assistenza dei malati? Oppure ancora ha ragione chi lavora nei presidi farmaceutici, Policlinico compreso, dove i budget trimestrali per i farmaci sono già in deficit del 30% e temono di non avere farmaci sufficienti? Ha ragione il ministro Balduzzi che il 19 dicembre ha annunciato in conferenza stampa, a colpi di slide, il “definanziamento” della sanità, inserito nel ddl sulla Stabilità e che parla di sostenibilità del sistema sanitario, che ammonta a 24,7 miliardi, mentre le Regioni che oggi faranno una nuova conferenza Stato-Regioni sulla sanità lo smentiscono e dicono che ci saranno 30 miliardi in meno?
Tabella del ministero della Sanitá
Anno 2012. Fabbisogno finanziario stimato ante manovre: 110,512 mld. Finanziamanto reale: 107,961 mld. Differenza: 2,551 mld.
Anno 2013. Fabbisogno finanziario stimato ante manovre: 112,393 mld. Finanziamanto reale: 107,008 mld. Differenza: 5,385 mld.
Anno 2014. Fabbisogno finanziario stimato ante manovre: 116,236 mld. Finanziamanto reale: 107,901 mld. Differenza: 8,335 mld.
Anno 2015. Fabbisogno finanziario stimato ante manovre: 119,856 mld. Finanziamento reale: 111,421 mld. Differenza: 8,435 mld.
Un bel rompicapo. Anche perché verranno tagliati i posti letto, assunto un medico su due che vanno in pensione, senza fare i conti che per alcune specializzazioni (cardiologi, pediatri, gastrointerologi), si verrà a creare un divario generazionale enorme fra quelli che sono in uscita per andare in pensione e i giovani che potrebbero sostituirli. (In Lombardia per esempio ci sono solo 354 cardiologi di 34 anni)
Una cosa è certa. La virtuosa sanità lombarda mostra molte crepe, che potrebbero trasformarsi in piaghe sociali. Anche perché, se il numero di medici infermieri in esubero aumenteranno dopo la riorganizzazione sanitaria, che vuole in teoria abolire gli sprechi, i pazienti, soprattutto anziani e non autosufficienti, lo saranno ancora di più.
Le proteste al San Raffaele