«Matteo Renzi si è imposto grazie al messaggio popolare del “Tutti a casa”. Ma le sue idee sono state nettamente sconfitte». Sprigiona gioia e una profonda soddisfazione la presidente del Partito democratico Rosy Bindi, la figura politica più antitetica rispetto al messaggio e alla visione incarnati dal primo cittadino di Firenze, che della pasionaria cattolica del Pd ha fatto uno dei bersagli privilegiati della sua campagna per la “rottamazione” dell’apparato del Nazareno.
Una battaglia che, se nei confronti di Walter Veltroni e Massimo D’Alema ha ottenuto un indubbio successo, di fronte alla vicepresidente della Camera dei deputati ha incontrato uno scoglio inossidabile. «Sulla mia ricandidatura deciderà soltanto il partito». Una sicurezza granitica nella propria longevità politica pervade ogni suo intervento, come quello diffuso via Twitter dal parlamentare del Pd Mario Adinolfi, convinto supporter del sindaco di Firenze. Al suo ex collega democratico-cristiano Pier Ferdinando Casini, che dai banchi dell’Aula di Montecitorio le grida con ilarità «Brava, lei non è da rottamare», Bindi replica in forma allusiva: «Ci si capisce tra noi». Parole che sanciscono l’archiviazione del sogno di Renzi.
E proprio Rosy appare la più entusiasta per il trionfo di Bersani, la meno disponibile a riconoscere allo sfidante l’onore delle armi e a privilegiare un’apparenza di fair play. Lo rivelano due episodi emblematici. Nel corso dello speciale del Tg3 dedicato al primo turno delle primarie, Bindi viene interrotta bruscamente per tre volte dalla direttrice e conduttrice Bianca Berlinguer. All’inizio per il collegamento con Diego Bianchi in arte “Zoro”, poi a causa di un’urgente interruzione pubblicitaria mentre lei è impegnata a illustrare il progetto del Pd, quindi perché incombe il collegamento con Nichi Vendola. Quando le viene tolta nuovamente la parola, lei sbotta all’indirizzo della giornalista: “Ma vaffa…”.
L’altro fatto va in scena al cinema Capranica di Roma, dove sono riuniti i sostenitori del segretario del Pd la sera della sua vittoria. Festeggiamenti, brindisi, interventi a partire da quello di Bersani. Alle 23 si spengono luci e riflettori, e i media cominciano ad abbandonare la sala, così come lo stato maggiore del Nazareno. Tutti tranne Rosy Bindi, che resta fino all’ultimo minuto disponibile per rilasciare dichiarazioni a ogni organo di stampa.
Aneddoti che gettano luce in modo cristallino sui tratti salienti della personalità e dello spirito di una delle donne più influenti e incisive nella vita pubblica del nostro paese, soprattutto nel suo versante progressista. Figura che ama nutrirsi di politica, dalle convinzioni e passioni fortissime, radicate, intransigenti, ancorata all’universo culturale della prima Repubblica, e visceralmente legata all’esperienza della sinistra democratico-cristiana, della corrente di Base, e dell’insegnamento di Giuseppe Dossetti, portatore di una concezione teocratica e monastica della società e delle istituzioni.
Con queste radici Maria Rosaria Bindi, nata nel febbraio 1951 a Sinalunga, in provincia di Siena , intraprende il suo percorso formativo e civile. Cresciuta in una famiglia profondamente cattolica, da ragazza vuole fare il prete: «Sì, dicevo messa da sola. Però la parte preponderante era l’omelia. Quindi in realtà volevo fare il politico». Si laurea in Scienze politiche all’Università Luiss di Roma e diventa assistente di Vittorio Bachelet, giurista, politico democratico-cristiano e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Lo studioso diviene un maestro e un punto di riferimento per la giovane ricercatrice, che verrà segnata dal tragico epilogo della sua esistenza.
Il 12 febbraio del 1980, giorno del suo compleanno, Rosy si trova alla Facoltà di Scienze politiche della Sapienza, il principale ateneo della Capitale in cui si è specializzata in diritto amministrativo, quando Bachelet, che sta parlando tranquillamente con lei dopo una lezione, viene raggiunto all’ingresso del dipartimento da alcuni colpi di pistola sparati dalla militante delle Brigate Rosse Anna Laura Braghetti, una dei responsabili del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro, padre politico di Bachelet. In Rosy Bindi, l’attentato lascia un segno indelebile, che sceglie di portare fino in fondo un impegno intransigente nel cattolicesimo politico organizzato.
Ricercatrice e docente nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena, milita nell’Azione Cattolica di cui ricopre il ruolo di vicepresidente nazionale dal 1984 al 1989. Anno in cui compie il salto nell’agone politico-elettorale. A giugno viene eletta parlamentare europeo per la Dc nella circoscrizione Nord-Est, grazie a 211mila preferenze. È da qui che nei quattro anni seguenti affronta il passaggio decisivo della storia del partito.
Fa il suo ingresso nella nomenclatura come rappresentante battagliera della sinistra interna quando regna incontrastato il Grande Centro guidato da Arnaldo Forlani. Interprete dell’insofferenza di gran parte della base e dell’elettorato per il logoramento e l’immobilismo in cui la Democrazia cristiana è imprigionata, grazie al patto di governo siglato con il Partito socialista di Bettino Craxi, Bindi si fa promotrice di una proposta di cambiamento appoggiando l’ascesa alla segreteria di Mino Martinazzoli, per una rigenerazione del partito imperniata sul ritorno al popolarismo di Luigi Sturzo.
Il progetto prende corpo nel 1992, anche grazie all’ondata di Mani Pulite. Animata dal desiderio di purificare il proprio partito dal virus della corruzione e della disonestà, Rosy si fa promotrice di una linea dura e inflessibile contro tutti gli esponenti democratico-cristiani raggiunti da un avviso di garanzia. Ne invoca e ne pretende le immediate dimissioni, in nome di un principio integrale di pulizia in grado di allontanare il semplice sospetto di illegalità e infamia morale. Riesce in tal modo ad azzerare buona parte del ceto dirigente della Dc riversando la rabbia e l’indignazione diffusa contro i simboli più noti del malaffare. Che allo stesso tempo rappresentano i suoi nemici interni.
Se Bindi si rivela intransigente al limite del fanatismo nel favorire l’emarginazione e l’espulsione dei “reprobi” dalla Balena Bianca, conquistandosi tra i quadri e colleghi di partito che la temono e la detestano il soprannome di pasionaria e “Savonarola in gonnella”, altrettanto inflessibile è la sua difesa della realtà partitica. Pochi protagonisti della vita pubblica sono stati così rigorosi e coerenti nella volontà di preservare l’intangibilità delle forze politiche tradizionali legate agli albori della vicenda repubblicana. Nessuno come lei è intimamente ancorato all’eredità delle grandi esperienze popolari cattolico democratica e sociale, socialista e comunista. E nessuno come lei si è eretto ad alfiere dell’attualità di quelle storie, difendendo il regime assembleare, il metodo della concertazione e dell’interventismo pubblico nella politica economica, il primato assoluto dei partiti e dei loro vertici.
Un orizzonte rispetto a cui ogni spunto di riforma liberale imperniata sul conflitto dinamico delle proposte politiche, qualunque innovazione di stampo liberista capace di rompere decenni di predominio statalista, di tirannia fiscale, di incrostazioni corporative, viene percepita come una pericolosa minaccia. Perché minano l’armonia sociale e il totem del consenso, pilastri intoccabili dell’assetto repubblicano italiano. Rosy Bindi è l’interprete più pura di tale universo etico-politico e alla sua realizzazione ha ispirato tutte le sue iniziative pubbliche negli ultimi vent’anni, fin dalla rifondazione nell’autunno del 1992 del Partito popolare per opera di Martinazzoli.
Eletta nel marzo del 1994 deputato nello sfortunato Patto per l’Italia, promuove un’interminabile battaglia contro il Cavaliere e il mondo che rappresenta, quanto di più alieno e ostile possa esistere rispetto ai valori in cui lei ha sempre creduto. E comincia a costruire, con personalità del calibro di Beniamino Andreatta e Romano Prodi, il disegno di un ponte in grado di unire il centro e la sinistra, traducendo in realtà il suo sogno di una vita. Sono i primi semi dell’Ulivo, destinato a trionfare nelle elezioni politiche dell’aprile 1996 dopo le quali Bindi, al governo, diventa responsabile della sanità.
Ricopre l’incarico per quattro anni, durante i quali promuove un’ampia riforma del servizio sanitario nazionale, fra aspre polemiche provenienti dall’opposizione, dalle rappresentanze dei medici e dalle aziende farmaceutiche, e liquida con durezza la cura contro il cancro messa a punto dall’oncologo modenese Luigi Di Bella, che aveva riscosso grande attenzione da parte della stampa e di migliaia di malati.
Rieletta nel 2001 alla Camera dei deputati come rappresentante della Margherita guidata da Francesco Rutelli, torna a ingaggiare un’aspra battaglia contro il nuovo esecutivo guidato dal Cavaliere. È tra le figure più detestate dai rappresentanti della Casa delle libertà, che la considerano una terribile catto-comunista, portatrice di una visione rigorista, austera e punitiva della politica, insofferente verso la vita mondana e amante delle riunioni nelle parrocchie toscane, dei dibattiti alle feste di partito e alle sagre popolari.
L’intolleranza che attira su di sé nel centro-destra va al di là dei confini squisitamente politici e irrompe nel terreno dell’immagine, dei gusti personali, dell’essere donna nel palcoscenico pubblico. A farsi portavoce per prima di una simile deriva è l’agguerrita Daniela Santanchè, sua perfetta alter ego. Bindi, diceva, «costituisce un’ottima ragione per rimanere di destra. È seriosa, ma la serietà è un’altra cosa. Meglio mettersi i tacchi a spillo, allora, e non fare la mezza suora». Raffinata valutazione a cui l’attuale presidente del Pd replica senza timore: «Io tengo conto dell’immagine. A dieta mi ci metto, perché è una questione di salute e presumo anche di avere un mio stile, una mia eleganza, rispetto ai tacchi a spillo, alle ostentazioni che non sempre mi sembrano eleganti. La cura di sé è indispensabile: quello che non mi piace è trasformare attraverso l’immagine la verità di se stessi. È vero, non mi trucco, ma non ho niente contro chi lo fa: se vado in tv, anch’io metto il fondotinta, un po’ di rossetto».
Altra tappa del crescendo di attacchi ad personam nei suoi confronti vede protagonista l’odierno numero uno de La Destra, Francesco Storace, che davanti alle iscritte di Alleanza nazionale si lascia andare: «E non parliamo della Bindi, che non è neppure una donna». Anche qui giunge puntuale la risposta tagliente dell’ex ministro: «Ho portato i calzettoni fino a sedici anni, il che non mi impediva di andare alle feste. Da ragazzi si tende al conformismo e un po’ mi è costato discostarmi dai modelli. Non è stato semplice attraversare le varie fasi della vita, i vari ambienti. Però i miei compagni di scuola erano gran signori, di piccoli Storace non ne ho mai trovati. In classe ero molto amata, e rispettata. Una volta, avrò avuto 17 anni, uno della mia classe disse: “Certo, se la Bindi fosse bella quant’è intelligente, sarebbe miss Mondo”. C’era dell’affetto, nelle sue parole, mica del disprezzo. Mi intristisce dirlo, ma solo facendo politica ho incontrato persone che più che uomini sono ‘maschi’».
Ben diverso nelle finalità, anche se affine nei toni rispetto alle parole pronunciate dal suo compagno di scuola, è l’intervento compiuto dal Cavaliere nel corso di una telefonata a Porta a Porta il 7 ottobre del 2009. Riflettendo sulla bocciatura del Lodo Alfano per opera della Corte Costituzionale, Bindi afferma di ritenere gravissime le affermazioni del capo del governo per il quale il capo dello Stato avrebbe dovuto usare la propria influenza sui giudici affinché la legge passasse il vaglio di legittimità. Berlusconi chiama la trasmissione citando una battuta attribuita a Vittorio Sgarbi: «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente». Repentina la reazione della vicepresidente del Pd: «Sono una donna che non è a sua disposizione». La battuta del premier non è una novità. Già l’8 aprile 2003, sostenendo la candidatura a sindaco di Brescia di Viviana Beccalossi, Berlusconi aveva detto: «È più brava che bella, il contrario di Rosy Bindi». E non è neanche l’ultima. Il 19 luglio 2010, visitando l’Università Telematica E-Campus, il Presidente del Consiglio loda la presenza di «tante belle ragazze laureate che di certo non somigliano a Rosy Bindi».
All’indomani della rocambolesca vittoria dell’Unione nel 2006, Bindi è nominata da Romano Prodi responsabile per le politiche della famiglia. Tema che coinvolge forme di convivenza innovative, comprese quelle omosessuali, da tempo al centro di richieste di riconoscimento giuridico. Su questo versante rivela una notevole apertura al confronto impegnandosi per l’istituzione dei Dico, progetto di legge concernente i diritti e i doveri delle persone stabilmente conviventi. Ma il disegno presentato dal governo nel 2007 naufraga per la feroce opposizione della quasi totalità della Casa delle libertà, del mondo ecclesiastico e delle frange più oltranziste del mondo cattolico attivo nell’Unione.
Così Rosy ricorda quella travagliata esperienza: «Certo che ho sofferto, che ho avuto paura di dannarmi l’anima. Ma sono convinta che i Dico non siano peccato, anzi credo possano rappresentare semi di bene».
La sua disponibilità al confronto trova tuttavia un limite insuperabile nelle sue radicate convinzioni: «Il desiderio di maternità e di paternità un omosessuale se lo deve scordare. Non sarei mai favorevole al riconoscimento del matrimonio fra omosessuali: non si possono creare in laboratorio dei disadattati. È meglio che un bambino cresca in Africa». Toni e accenti che verranno ripresi cinque anni più tardi nel corso della festa romana del Partito democratico. Quando, di fronte a un gruppo di militanti di organizzazioni a difesa dei diritti dei gay che le contestano il carattere blando del documento sulle unioni civili approvato dall’Assemblea del Pd, replica gridando: «Io ho bisogno di voi e del vostro sostegno, ma se voi non sentite il bisogno di me siete voi che ve ne dovete andare!».
Una durezza di linguaggio e di vis polemica che toccano una virulenza inimmaginabile in una donna ispirata ai principi della carità cristiana nel corso di una drammatica seduta parlamentare. È il 14 ottobre del 2011 e, in occasione dell’ennesima presentazione della questione di fiducia da parte del governo di Silvio Berlusconi giunto al tramonto, il Partito democratico decide con il resto dell’opposizione di astenersi dal voto e abbandonare l’Aula di Montecitorio per provocare la mancanza del numero legale. La pattuglia dei sei parlamentari radicali eletti nelle fila del Pd dissente dalla scelta di un “nuovo Aventino” e sceglie di partecipare alla chiama votando No all’esecutivo.
L’iniziativa, che non determina il raggiungimento del quorum richiesto per rendere valida la seduta, scatena una feroce reazione nei colleghi di gruppo. A distinguersi per asprezza di toni contro «i traditori di Torre Argentina» è proprio lei, a cui tocca il turno di presidente dell’assemblea. Al deputato del centrodestra Maurizio Lupi, vicino a Comunione e Liberazione e già esponente democratico-cristiano, che con una battuta le ricorda «I voti sono voti», lei replica: «No, gli stronzi sono stronzi».
Nel maggio del 2007 Rosy è tra i 45 componenti del Comitato promotore nazionale del Partito democratico, in cui assume un’importanza crescente, al punto che decide di candidarsi alle primarie dell’autunno per designarne il segretario. Si guadagna l’adesione di buona parte dell’elettorato più legato alla conservazione dello Stato assistenziale e ostile alle innovazioni nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale, ma anche di esponenti ulivisti e prodiani. Ottiene, con il 13 per cento dei voti il secondo posto alle spalle di Walter Veltroni. Maria Laura Rodotà scrive sulla sua campagna: «È stata la candidata anti-Walter, la più aggressiva, anche la più divertente. Per questo ha interessato quelle che nel Regno Unito si chiamano le chattering classes, ‘classi chiacchieranti’ di gente dei media, della cultura, vicine alla politica ma in modo critico».
Animatrice della corrente interna al Pd dal titolo rivelatore di “Democratici davvero”, come se gli altri aderenti e dirigenti del Nazareno non lo fossero, si fa portatrice di una linea assai critica verso le elezioni primarie del 2012, «a causa della loro portata dirompente e conflittuale». E cerca di limitarne e ridurne l’impatto, rivendicando al gruppo dirigente del partito la piena responsabilità nel decidere i contenuti da presentare all’opinione pubblica.
Poco importa, in altre parole, se i cittadini dovessero manifestare un indirizzo radicalmente antitetico rispetto a quello perseguito dal vertice. Una convinzione ribadita con pervicacia in ogni appuntamento pubblico, e che ha ispirato ogni tappa del suo scontro feroce con il primo cittadino di Firenze. Ma la diffidenza verso il più “americano” degli istituti elettorali previsti nel nostro paese, nei confronti dell’espressione incontrollabile, aperta, indipendente, della volontà della base e dei simpatizzanti del partito, la consapevolezza della superiorità e della presunzione di eternità dell’apparato, si sono fermati di fronte all’evidenza dell’esito delle primarie.
Con il trionfo di Pier Luigi Bersani, improvvisamente, anche Rosy Bindi ha scoperto che è sempre salutare dare fiducia ai propri elettori, e che «il bagno democratico e competitivo delle primarie, con le inevitabili tensioni a cui ci hanno sottoposto», ha trasmesso un nuovo slancio alle aspirazioni di governo del Partito democratico.