Sponsor addio, lo sport del 2012 è tenuto in vita dai diritti tv

Sponsor addio, lo sport del 2012 è tenuto in vita dai diritti tv

Il 2012 dello sport si avvia a conclusione con un bagaglio di eventi e volti che a fatica entrano in una lista. Nella testa degli appassionati svettano i cerchi olimpici londinesi, con la scoperta di medaglie ed eroi fino al giorno prima ignorati, mentre i calciofili ripensano agli Europei in Polonia e Ucraina, quelli di Mario Balotelli e sua maestà la Spagna. Si chiude un anno a tutta velocità, lo stesso che, nel fluire delle date, si appunta la seconda vita di Roger Federer, il lancio di Felix Baumgartner, il ritiro di Max Biaggi, la sfortuna di Alonso, le corse di Bolt, il calcioscommesse e il volto pulito di Farina, il ritorno di Luna Rossa, l’addio di Guardiola al Barcellona e le braccia al cielo di Alex Zanardi.

Un anno contrassegnato dalle Olimpiadi, 16.000 atleti per 205 nazioni, che hanno ridato lustro ad un mondo dello sport sempre in lotta con la crisi della vita reale. A partire dagli sponsor che ridimensionano la propria presenza sulle casacche degli atleti. Dal calcio al basket, passando per volley e ippica, è un fuggi fuggi di aziende con poche fiabesche eccezioni come il Paris Saint Germain a trazione Qatariota, fresco di sponsor da 200 milioni di euro, o la monoposto di Pastor Maldonado in Formula Uno, foraggiata dai petroldollari di Chavez. Nel mondo vero diverse società sportive falliscono e altre, in cerca di quattrini, si affidano a Scientology o a pompe funebri. Dopo decenni di mecenatismo e marketing, grandi famiglie come Benetton chiudono i rubinetti delle sponsorizzazioni, mentre in Spagna scricchiola il sistema bancario che negli ultimi anni ha foraggiato le spese folli di Barcellona e Real Madrid. Il sottofondo è da marcia funebre, se non fosse per la cassaforte dei diritti tv che tiene in vita i sogni e i bilanci di alcune fortunatissime discipline.

Nel mezzo svettano i trionfi sportivi, le medaglie, gli avvicendamenti. Una serie di istantanee che restituiscono ossigeno agli appassionati. I Carlo Molfetta che italianizzano il taekwondo e i Manassero che spopolano a golf, i Del Piero che salutano commossi e i Totti che inseguono l’immortalità, le Serena Williams che ruggiscono e le Sara Errani che diventano top ten, senza dimenticare le Vezzali che ringiovaniscono e le Pellegrini che provano a non invecchiare.

Eppure tra gli alti e bassi dell’elettrocardiogramma sportivo, gli ultimi dodici mesi consegnano alle cronache due casi che riportano la longa manus del doping sul mondo dell’agonismo. Due parabole umane e sportive totalizzanti, tali da trasformare campioni in mostri, prima simboli oggi reietti. Condannati, nel migliore dei casi, all’oblio. Dagli Stati Uniti all’Italia, Lance Armstrong e Alex Schwazer drogano la narrazione sportiva del 2012.

Quella del ciclista texano è una storia senza eguali, per la statura del campione e l’enormità della vicenda, tuttora ricca di ombre. In pochi mesi di verità e verbali, cento pagine di dossier e una trentina di testimonianze, Armstrong ha visto sgretolarsi una carriera di successi. Il 22 ottobre la Federciclismo mondiale, per bocca del suo presidente Pat McQuaid, ha pronunciato quella che per uno sportivo equivale a una condanna a morte: «Lance Armstrong verrà privato di tutti i titoli vinti in carriera». Dal primo agosto 1998 in poi. Con la conseguenza che «per Lance Armstrong non c’è più posto nel ciclismo».

Si chiude una porta, si apre un burrone. Quello in cui cadono i sette titoli consecutivi del Tour de France e le decine di coppe conquistate in una carriera ventennale che ha fruttato al ciclista 50 milioni di dollari. Lance Armstrong, ieri eroe che sconfisse il cancro e macchina da soldi in cima alle classifiche di Forbes, deve fare il conto dei danni in mezzo alle macerie di un terremoto mediatico, oltre che giudiziario.

La Amaury, società organizzatrice del Tour De France, rivuole indietro i 3,8 milioni di dollari erogati in occasione delle sue vittorie, mentre gli sponsor scappano lasciando per strada anche eventuali sussurri di connivenza. Nike, Trek e Anheuser-Busch hanno salutato Armstrong, che ora teme ripercussioni economiche pure per la no-profit Livestrong. Istituita per la lotta ai tumori, la fondazione ha aiutato 2 milioni di persone ed è la cassaforte delle donazioni dei privati, oltre che dei versamenti che l’atleta faceva a seguito delle sue attività di conferenziere e testimonial in giro per il mondo.

Il timore, per una fondazione che nel solo 2011 ha speso 35,8 milioni di dollari in campagne di sensibilizzazione, è che nei prossimi dieci anni possano venir meno contributi per 20 milioni all’anno. D’altronde il ciclone doping non ha risparmiato nessuno: l’uomo, l’atleta, il benefattore. Tre facce della stessa medaglia di latta che oggi stritola l’ex campione e i suoi fantasmi. Sembra lontanissimo il 2009, quando, intervistato da BiciSport, Armstrong dichiarava la sua professione di fede per la bicicletta: «Questo amore fa sì che io rispetti il ciclismo e le sue regole».

Alex Schwazer, campione olimpico di marcia 50 km, non è riuscito a rispettare le regole e il cuore gli impedito di mentire, almeno davanti ai cinque cerchi olimpici. Tanta era la paura, arricchita da pressioni e debolezze, che il marciatore di Vipiteno è crollato all’alba di Londra 2012, quelle in cui avrebbe dovuto riconfermare la medaglia di Pechino, croce e delizia di una carriera vissuta in apnea. La sua storia, infinitamente meno chiassosa di quella del collega statunitense, ha monopolizzato la scena perché colma di riverberi umani, tanto da polarizzare l’opinione pubblica sulle lacrime dell’ex ragazzo d’oro corrotto dall’eritropoietina.

In forza all’arma dei Carabinieri e sospeso dal servizio, Schwazer ha perso un milione di euro da introiti pubblicitari e sponsor, che in lui credevano di aver trovato la faccia pulita dello sport. Addio ai contratti con Ferrero e Provincia di Bolzano, mentre Despar e Garmin hanno deciso di non voltare le spalle ad Alex. Anonymous gli ha addirittura attaccato il sito web, mentre l’Italia si divideva tra linciaggio e indulgenza nei confronti del campione deformato.

Eppure la batosta è giunta pochi giorni fa: il capo della procura del Coni ha chiesto quattro anni di squalifica al tribunale nazionale antidoping. Il massimo della pena per uno Schwazer «sorpreso e amareggiato dalla procura che non ha preso in considerazione il comportamento corretto da me tenuto negli anni passati oltre alla mia confessione e collaborazione con la giustizia». Il 2012 dello sport è scritto sull’acqua: trasparente, sfuggevole, inquinata.  

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