La crisi delle banche europee è destinata a durare ancora per molti anni. Probabilmente, fino al 2018, o forse fino al 2020. La colpa è del deleveraging, la riduzione delle attività e dell’indebitamento. Un fenomeno che, secondo le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi), è destinato ad aumentare nel corso del prossimo anno, per poi raggiungere il suo picco fra il 2014 e il 2016. Del resto, come aveva previsto Morgan Stanley già un anno fa, questo processo costerà al sistema bancario europeo fra i 1.500 e i 2.500 miliardi di euro. Una cifra immensa, che potrebbe anche aumentare se la stagnazione economica dovrebbe essere lo scenario dei prossimi anni.
L’austerity colpisce anche l’universo bancario. Tagli al personale, contrazione della dimensione complessiva, ritorno della discussione intorno alla divisione fra banche commerciali e banche d’investimento, tanta incertezza sul futuro: è questo l’universo bancario nel 2012.
Come spiega Morgan Stanley, il processo che è iniziato nella primavera 2007, in concomitanza con l’esplosione della bolla legata al mercato immobiliare statunitense, è ben lungi dall’essere terminato. Sono tre i benchmark che utilizza la banca statunitense: Svezia, Asia e Giappone. Queste i tre esempi di sistemi bancari che hanno visto crescere, chi più velocemente, chi più lentamente, il rapporto fra prestiti e depositi. Poi, come tutte le bolle, lo scoppio ha provocato una contrazione dell’universo bancario. Meno prestiti, meno depositi e aumento del credit crunch, con le tipiche conseguenze che questo fenomeno ha sull’economia reale. Secondo la stima empirica di Morgan Stanley, il ritracciamento delle banche europee potrebbe durare, nello scenario peggiore, ancora per dodici anni. Questo infatti è il periodo impiegato dal sistema bancario giapponese dopo la crisi dei primi anni Novanta. Non è un caso che quella particolare fattispecie economica sia passata alla storia come il Decennio perduto del Giappone.
Il problema non è però solamente europeo. Anzi. Gli istituti di credito americani stanno affrontando le stesse problematiche, la stessa crisi. Riduzione degli attivi, pulizia dei bilanci, ribilanciamento delle attività commerciali e di negoziazione: per Wall Street l’età dell’oro è terminata. O meglio, Wall Street non abita più a New York. Sono diverse infatti le banche che hanno spostato (o lo stanno facendo) le proprie attività in Asia, dove ancora ci sono margini operativi di una certa rilevanza.
Oltre al deleveraging, a spaventare diverse banche d’investimento c’è anche una scadenza precisa. Si tratta della fine delle linee di credito che si sono create dopo il lancio delle operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Long-term refinancing operation, o Ltro) da parte della Bce fra il dicembre 2011 e il febbraio 2012. Secondo il pensiero di Hsbc i 1.030 miliardi di euro che la Bce ha fornito alle banche dell’eurozona per consentir loro di sostenere gli Stati sul mercato obbligazionario primario rischiano di essere un problema peggiore della Grecia. Nel lungo termine, infatti, gli istituti di credito dovranno fronteggiare la fine di questa stampella. Una sorta di fiscal cliff del sistema bancario dell’eurozona.
La spirale in cui sono entrate le banche mondiali, dopo anni di vacche grasse e credito facile, rischia di peggiorare. Colpa di un duplice circolo vizioso. Da un lato infatti l’intreccio fra sistema bancario e stati, punto su cui la Bce sta cercando di agire, ha provocato una distorsione dei mercati obbligazionari. Nell’eurozona l’incertezza e la crisi economico-finanziaria hanno provocato una frammentazione del mondo bancario. Se gli investitori perdono interesse nei titoli di stato di alcune nazioni, queste devono cercare il supporto degli istituti di credito per evitare insuccessi nelle aste primarie. Imbottendosi di bond governativi, le banche corrono il rischio di ulteriori perdite nel caso il valore dei titoli in pancia cali per via delle tensioni sull’obbligazionario.
Dall’altro lato, il rapporto fra banche ed economia reale. Per via del deleveraging e dell’accordo forzoso con gli stati dell’eurozona, gli istituti di credito hanno ridotto la quantità di erogazioni verso il settore privato. In altre parole, hanno chiuso i rubinetti verso le imprese. Un effetto, quest’ultimo, che in Europa è stato amplificato dalla rottura del meccanismo di trasmissione della politica monetaria della Bce. Più i tassi d’interesse (sia di rifinanziamento sia sui depositi overnight) dell’istituzione guidata da Mario Draghi si abbassavano, più i tassi retail delle banche si innalzavano per compensare i mancati profitti. Il risultato? Contrazione delle attività economiche, innalzamento della disoccupazione e possibile recessione. Una spirale mortale che, secondo le stime di Fmi e Morgan Stanley, potrebbe accompagnare il mondo bancario per ancora tanto, forse troppo, tempo.