Storia MinimaUn paese di automi che non vogliono uscire dal passato

Un paese di automi che non vogliono uscire dal passato

Nella stagione del declino dei capi quello che colpisce oggi è ciò che resta. In altre parole la condizione del campo dopo la fine della festa, quando ormai tutto è consumato e domina il silenzio. Ciò che prima appariva carico di potere, capace di comunicare autorevolezza e forza, si presenta come miserevole e inconsistente.

Ma la trasfigurazione del potere da totem a residuo, in altre parole da macchina potente a scenario patetico, se non siamo vittime del nostro trionfalismo è forse la dimensione che ci fa apparire oggi più che liberati, smarriti. Di più: umiliati.

Infatti. La realtà senza finzioni di ciò che a lungo ci è apparso come onnipotente non dice della sua forza di inganno, ma della inconsistenza di chi si sentiva e si presentava come schiacciato, inadatto, “marginale”. Al di là delle condizioni attuali di Silvio Berlusconi – se egli sia o no un’ “anitra zoppa” – ciò su cui dobbiamo ancora prendere la misura è la nostra dimensione. Ovvero la nostra condizioni di automi.

È stata sufficiente una parola perché improvvisamente l’interruttore del tempo girasse all’indietro, nella nostra testa, prima ancora che nella realtà. Anzi nella nostra testa e quindi nella realtà. Il problema politico che sta di fronte a Berlusconi non è meno radicale e profondo di quello che vivono i suoi antichi oppositori: liberarsi da un fantasma, dall’ombra del passato, dall’immagine che si è cucita addosso e che altri hanno assunto come realtà. 

Certamente è molto difficile per il protagonista di questo ventennio. Ma non lo è di meno per i suoi avversari sorpresi e stupefatti di dover procedere senza il conforto di quell’immagine. Utile. Talora indispensabile per avere un’identità. E non meno spaventati dalla desolazione di ciò che rimane dopo la festa e dal silenzio che regna sovrano. E ancor di più dall’incapacità di ammetterlo.

Gabriel Garcia Marquez, Ciò che resta dopo la fine della festa.*

Durante il fine settimana gli avvoltoi si introdussero attraverso i balconi della casa presidenziale, fiaccarono a beccate le maglie di fil di ferro delle finestre e smossero con le ali il tempo stagnato all’interno, e all’alba del lunedì la città si svegliò dal suo letargo di secoli con una tiepida e tenera brezza di morto grande e la putrefatta grandezza. Solo allora ci azzardammo ad entrare senza prendere d’assalto i muri corrosi di pietra fortificata, come volevano i più risoluti, o sbandellare con coppie di buoi, l’entrata principale, come proponevano altri, poiché bastò che qualcuno li spingesse per far cedere nei loro gangheri i portoni blindati che nei tempi eroici della casa avevano resistito alle bombarde di William Dampier.

Fu come penetrare nell’ambito di un’altra epoca, perché l’aria era più tenue nei pozzi di macerie del vasto covo del potere e il silenzio era più antico, e le cose erano difficilmente visibili nella luce decrepita. Tutt’intorno al primo cortile, dove le mattonelle avevano ceduto alla pressione sotterranea della malerba, vedemmo il rione in disordine della guardia fuggiasca, le armi abbandonate negli armadi, il lungo tavolo di assi grezze coi piatti degli avanzi del pranzo domenicale interrotto dal panico, vedemmo il capannone in penombra dove avevano operato gli uffici civili, i funghi colorati e i gigli pallidi tra le pratiche inevase il cui corso ordinario era stato più lento delle vite più aride, vedemmo nel centro del cortile la cisterna battesimale dov’erano state cristianizzate con sacramenti marziali più di cinque generazioni, vedemmo in fondo l’antica scuderia del viceré trasformata in rimessa, e vedemmo tra le camelie e le farfalle la berlina del rumore, il furgone della peste, la carrozza dell’anno della cometa, il carro funebre del progresso nell’ordine, la limousine sonnambula del primo secolo di pace, tutti in buono stato sotto le ragnatele polverose tutti dipinti coi colori della bandiera.

Nel cortile successivo, dietro una grata di ferro, c’erano i roseti innevati di polvere lunare alla cui ombra dormivano i lebbrosi nei tempi di magnificenza della casa e avevano proliferato tanto nell’abbandono che era molto se rimaneva un cantuccio senza odore in quell’aria di rose mista alla pestilenza che giungeva fino a noi dal fondo del giardino e al tanfo di pollaio e al fetore di sterco bovino e di fermenti di piscio di vacche e di soldati della basilica coloniale trasformata in stalla da mungitura. Facendoci strada tra la sterpaia asfissiante vedemmo la galleria ad arcate con vasi di garofani e festoni di astromelie e di buganvillee dove un tempo erano le baracche delle concubine, e dalla varietà dei residui domestici e dalla quantità di macchine da cucire ci parve possibili che lì avessero vissuto più di mille donne col loro gregge di settimini, vedemmo il disordine di guerra delle cucine, la biancheria marcita al sole nelle tinozze del bucato, la sentina aperta del cacatoio comune delle concubine e dei soldati, e vedemmo in fondo i salici babilonici che erano stati trasportati vivi dall’Asia Minore in gigantesche serre di mare, con la loro terra, con la loro linfa e la loro pioggerellina, e dietro ai salici vedemmo il palazzo, immenso e triste, attraverso le cui persiane scheggiate continuavano a introdursi gli avvoltoi.

Non dovemmo forzare l’entrata, come avevamo pensato, perché la porta principale parve aprirsi al solo impulso della voce, di modo che salimmo al piano principale su per una scala di pietra viva i cui tappeti da melodramma erano stati triturati dagli zoccoli delle vacche, e dal primo vestibolo fino alle camere private vedemmo gli uffici e le sale di rappresentanza in rovina nelle quali vagavano le vacche impavide che mangiavano le tende di velluto e mordicchiavano il raso delle poltrone, vedemmo quadri eroici di santi e di militari gettati per terra tra mobili rotti e mucchi recenti di sterco di vacca, vedemmo la sala dove si mangiava mangiata dalle vacche, il salone dei concerti profanato dal caos delle vacche, e le tavole da biliardo fatte fuori dalle vacche, vedemmo abbandonata in un angolo la macchina del vento, che falsificava qualsiasi fenomeno dei quattro quadranti della rosa nautica di modo che la gente della casa sopportasse le nostalgie del mare che se n’era andato, vedemmo gabbie di uccelli appese in ogni luogo e ancora coperte coi panni per dormire di qualche notte della settimana precedente, e vedemmo dalle finestre numerose l’esteso animale addormentato della città ancora innocente del lunedì storico che cominciava a vivere, e oltre la città, fino all’orizzonte, vedemmo i crateri morti di aspre ceneri lunari della pianura senza fine dov’era stato il mare. 

*Gabriel Garcia Marquez, L’autunno del patriarca, Mondadori, Milanio 2012, pp. 3-5