Sul trono, il fascinoso principe avvolto nelle sue flanelle, Gianni amato dalle donne e invidiato da tutti; a destra il gran ciambellano, Enrico Cuccia; a sinistra il cancelliere di ferro, Cesare Romiti. Attorno, la corona di vassalli, valvassini e valvassori, fuori dal castello cavalieri di ventura non proprio senza macchia, ma certo senza paura: tra essi si distinguono gli eterni rivali Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Penne veloci e vagabonde lo hanno narrato così, il capitalismo italiano, quello delle grandi famiglie e quello dei parvenu.
Ebbene, la sala del trono non c’è più, il primo motore immobile del sistema si è fermato, i due soli, Fiat e Mediobanca, sono tramontati insieme nel giro di pochi anni. Nel 2000 muore Enrico Cuccia, nel 2003 scompare l’Avvocato, l’anno successivo Umberto Agnelli. L’ingresso nell’euro e la globalizzazione sconvolgono gli equilibri economici italiani. L’arrivo sulla scena politica di Berlusconi sottrae alla Fiat il suo ruolo di cerniera, anche sul piano internazionale. Finché la grande crisi del 2008 non dà il colpo di grazia.
Lo smottamento del centro regolatore attraversa alcune tappe fondamentali: la battaglia per impossessarsi dell’eredità di Cuccia, che vede in campo i grandi banchieri e la stessa Banca d’Italia; lo scontro sulle spoglie della Fiat considerata spacciata tra il 2002 e il 2004; la competizione per la presidenza di Confindustria e il duello senza esclusione di colpi per le Generali. In tutti questi passaggi, la politica ha giocato un ruolo chiave. Quando si cerca di dipanare gli intrecci al vertice della finanza, infatti, non bisogna mai dimenticare il gioco degli specchi tra i poteri. Ed è da qui che vogliamo partire per raccontare come si rimescola un intero sistema di controllo e di comando.
LA FINE DELLA MEDIAZIONE
Di fronte alla vittoria elettorale del centro-destra nel 2001, l’Avvocato fa buon viso a cattivo gioco, ma non capisce che la partita è cambiata del tutto. Cerca di condizionare il Cavaliere, gli “presta” Renato Ruggiero alla Farnesina, per rassicurare le cancellerie dell’Occidente e, soprattutto, gli Stati Uniti. Ma dura pochissimo. L’11 settembre, l’inizio della guerra al terrorismo islamico e poi l’invasione dell’Iraq offrono a Berlusconi l’occasione per stringere direttamente i rapporti con George W. Bush. La lettera dei willings che divide i governi dell’Unione europea rappresenta un capolavoro di furbizia diplomatica: Roma appoggia la liberazione da Saddam Hussein, però non manda soldati. E tuttavia, di fronte a una Ue divisa e a una Nato riluttante, l’Italia riconquista i galloni a stelle e strisce. L’Avvocato era stato per decenni il trait d’union verso l’establishment americano, grazie ai suoi amici tra i quali Henry Kissinger ha giocato un ruolo chiave dalla metà degli anni ‘70. Adesso, non c’è più bisogno di lui e ciò è ancor più vero nel rapporto con gli imprenditori.
Un’avvisaglia chiara si manifesta nel 2000, quando il candidato Fiat viene sconfitto nella corsa alla presidenza della Confindustria, ma per il successo di Antonio D’Amato contro Carlo Calleri, risulta determinante Cesare Romiti e l’operazione viene letta come un regolamento di conti del vecchio manager isolato dai nuovi gestori della Fiat. Nella primavera del 2001, in piena campagna elettorale, Berlusconi si presenta a Parma al convegno della Confindustria e proclama “il vostro programma è il mio programma”. A quel punto, si capisce molto meglio come stanno le cose. D’Amato si impegnerà l’anno successivo nella campagna per abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma resterà deluso e scottato perché Berlusconi non se la sente di andare fino in fondo, quando la Cgil guidata da Sergio Cofferati porta in piazza un milione di lavoratori (o forse più, i numeri sono sempre politici in Italia).
Nel 2004 Luca di Montezemolo, un uomo di famiglia, oltre che presidente della Ferrari, conquista la Confindustria e quasi contemporaneamente accetta la presidenza della Fiat, in attesa che maturi John Elkann. Ma il blasone degli Agnelli non gli giova. Nel marzo 2006 organizza un convegno a Vicenza, Berlusconi vi legge l’intento implicito di avvicinarsi al centro-sinistra che con Romano Prodi si appresta a vincere le elezioni. Allora, Berlusconi interviene a piedi giunti mostrando chiaramente il consenso che riscuote tra la base degli imprenditori.
ATTACCO A MEDIOBANCA
Non si mette bene nemmeno in via Filodrammatici. La banca d’affari milanese aveva subito un colpo negli anni ’90 quando Beniamino Andreatta, l’economista e ministro democristiano, e Romano Prodi a lui vicino (entrambi nemici di Cuccia) avevano invitato i colossi anglo-americani al gran banchetto delle privatizzazioni. Nel 2001 è la stessa Fiat a scagliarsi contro scalando Montedison insieme ai francesi di Edf, a Romain Zaleski finanziere franco-polacco socio e socio di Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa, al SanPaolo guidato dal vecchio liberale Enrico Salza, alla Banca di Roma di Cesare Geronzi e alla stessa Intesa.
È la rivincita rispetto al 1994 quando, con il patto di sindacato, Cuccia commissaria Agnelli? O forse l’illusione di svolgere ormai in splendida solitudine il ruolo di centro del sistema? In ogni caso, Vincenzo Maranghi, successore di Cuccia, teme la hybris torinese e chiama in soccorso il finanziere francese Vincent Bolloré. Per evitare che Fondiaria finisca in mano alla Fiat, la passa a Ligresti. La compagnia di assicurazioni custodisce lo storico pacchetto che assicura il controllo della banca d’affari e, soprattutto, delle Generali. Comincia una guerra che finirà solo il 7 aprile del 2003 con le dimissioni di Maranghi.
Privata del suo gioiello, Mediobanca punta molto sulla Pirelli di Marco Tronchetti Provera che molti descrivono come candidato al ruolo (e non solo per il suo aplomb) di nuovo Avvocato. Quando nel 2001 acquisisce Telecom da Roberto Colaninno, eredita un gruppo oberato da un immenso debito che lo impiomba, al punto che la stessa Pirelli rischia grosso. Intanto, si sfalda l’altra corona di amici sostenuti da Cuccia. I Pesenti diventano sempre meno italiani, grazie alle acquisizioni in Francia. E lo stesso accade ai Merloni con l’Inghilterra che rappresenta ormai metà del fatturato. Scomparsa la Olivetti, spentisi gli Orlando, i principi del rame, tra i vecchi soci resta Ligresti il siciliano diventato re del mattone a Milano, ma sempre più oberato di debiti. Entra Fininvest con i suoi alleati, che Cuccia aveva tenuto fuori dalla porta, e si crea un asse, grazie alla mediazione dell’uomo d’affari tunisino Tarak Ben Ammar, tra Bolloré e Berlusconi che cerca di portare alla presidenza di Mediobanca Bruno Ermolli, un finanziere a lui vicino, membro del consiglio di amministrazione di Fininvest. Passerà Gabriele Galateri che viene dal mondo Fiat ed era stato uno dei principali collaboratori di Umberto Agnelli nell’Ifil.
Alla guida operativa della banca d’affari restano i due pupilli di Maranghi: Vincenzo Pagliaro e Alberto Nagel. Ma la creatura di Cuccia non è più la stessa. Il consiglio di amministrazione che si riuniva e si scioglieva in silenzio, dopo che ciascuno dei soci aveva presentato le carte dei loro bilanci al loro lord protettore, diventa sempre di più un parlamentino nel quale si intrecciano alleanze a geometria variabile. Liberi tutti? Nel 2005 scatta un attacco parallelo e convergente: contro l’Antonveneta da parte di Gianpiero Fiorani che guida la banchetta di Lodi e contro Bnl con Unipol capofila. La bandiera dell’italianità violata dagli olandesi di Abn Amro per Antonveneta e dagli spagnoli del Bbva per Bnl, è solo una coperta sdrucita, perché chi fa davvero paura non è straniero, ma italiano. Lo dimostra la scalata al Corriere della Sera dove si era creato un vuoto di potere.
L’ESTATE DEI FURBETTI
Dopo l’uscita di Romiti il 22 giugno 2004, la quota di Gemina (la finanziaria dell’ex top manager Fiat) era stata divisa dal gruppo Torinese e da Mediobanca, con un piccolo vantaggio per gli eredi Agnelli, secondo il vecchio detto dell’Avvocato: “La Fiat deve sempre avere un’azione in più”. Le tre scalate falliscono. A difesa del Corriere scende in campo direttamente Montezemolo, presidente di Confindustria e di Fiat. I vecchi poteri fanno quadrato.
Per avere un’idea di quanto sia stato aspro il conflitto, basti ricordare che venne costretto alle dimissioni e poi rinviato a giudizio il governatore della Banca d’Italia contro il quale si schierarono tutti i giornali legati al Lingotto. Antonio Fazio verrà condannato per il ruolo di fiancheggiatore degli scalatori; ma qui non interessa il coté giudiziario. La sostanza politica è che voleva fare della Banca d’Italia il cuore di un sistema neotolemaico, con le grandi banche come i sette cieli che circondano il nuovo dominus. Le stesse banche che hanno salvato la Fiat.
Nel 2002 Fazio aveva orchestrato il prestito convertendo (tre miliardi di euro), a settembre 2005 scadono i termini, la Fiat non ha i quattrini per ripagare i debiti, quindi gli istituti di credito possono diventare azionisti. A quel punto, gli eredi Agnelli temono di essere scalzati. Pensano che anche la sorte della Rcs sia segnata da un complotto politico-finanziario che vede sulla stessa barricata Fazio e Berlusconi. La presenza di Aldo Livolsi, banchiere d’affari vicino al Cavaliere, tra i pretendenti al Corriere, fa dire a Montezemolo che la maschera è caduta. Se c’era un grande vecchio, si è rivelato un gran pasticcione, però i principi del capitalismo italiano mostrano di aver perso lo scettro.
Nel salotto Mediobanca, intendiamoci, restano ospiti di riguardo, ma stanno lì per trovare asilo dalla tempesta. L’intreccio con Unicredit diventa una doppia debolezza. Il gruppo Telecom è troppo indebitato per muoversi in libertà, inchiavardato in un assetto proprietario confuso (gli spagnoli di Telefonica tirano i remi in barca, i soci bancari e finanziari a cominciare da Generali ingarbugliati nelle proprie matasse). Il vero pezzo forte resta il Leone di Trieste, cioè le Assicurazioni Generali per il cui controllo Cuccia ne ha fatte più di Carlo in Francia. E non è solo una metafora. In una finanziaria franco-lussemburghese era stato rinchiuso il pacchetto chiave grazie al quale Mediobanca è diventata l’azionista numero uno con oltre il 10% e un potere del tutto sovradimensionato rispetto alla quantità di azioni in portafoglio. L’operazione segreta passava per la banca Lazard, partner franco-americana di Mediobanca, e in particolare con l’aiuto concreto di uno dei suoi soci gerenti, Antoine Bernheim che entra nel consiglio delle Generali e ne diventerà presidente in due riprese.
IL LEONE IN GABBIA
Morto Cuccia, anche Bernheim si autocandida a fiduciario di un salotto buono dal respiro internazionale. Per questo, chi aspira a scardinare quel sistema, deve disarcionare lui. È quel che fa Cesare Geronzi. Tenutosi fuori dalle scalate, in freddo con Fazio, suo amico e mentore, che gli ha preferito Fiorani, in ottimi rapporti con Berlusconi che ha contribuito a salvare nel 1993, si avvicina a Giovanni Bazoli. Come sempre le cose in finanza si mescolano e in Italia si intrecciano. Nel 2007 Bazoli e Geronzi mettono a segno due fusioni (Intesa-San Paolo e Unicredit-Capitalia) che ribaltano gli equilibri nel sistema bancario. Geronzi diventa presidente di Mediobanca e non nasconde l’obiettivo di arrivare di lì a Generali. Ambizione personale? Certo. Una strategia di lungo periodo? Forse.
Un progetto esiste: fondere Mediobanca, Unicredit e Generali, creando un colosso di bancassurance alla francese che controlla partecipazioni chiave nei principali gruppi italiani (Telecom, Pirelli, Rcs, tra gli altri). La crisi del 2008 manda tutto in fumo e Unicredit entra in seria difficoltà subito dopo il fallimento di Lehman Brothers. Intanto, matura il ribaltone alle Generali con l’uscita di Bernheim e l’arrivo di Geronzi. Durerà appena un anno. Conflitti con il management e con gli azionisti, molti dei quali non hanno mai digerito il cambio al vertice, frustrano le aspirazioni del banchiere romano che viene a sua volta defenestrato.
Da quel momento in poi tutto precipita, dentro Generali (dove cambieranno uomini e strategia con l’arrivo di Mario Greco) e dentro Mediobanca. Il collasso di uno dei soci chiave, il costruttore Salvatore Ligresti, rischia di far saltare la banca d’affari esposta per oltre un miliardo di euro. Nagel prepara un salvataggio facendo entrare l’Unipol che, dopo la cocente sconfitta del 2005 nella scalata a Bnl, vede l’occasione per la riscossa. Ma viene fuori un accordo riservato (sia pur in fieri) per una consistente buonuscita a Ligresti. Interviene la magistratura, e un raid degli agenti della finanza nel dicembre 2012 deflora il santuario del capitalismo.
LA TRINCEA DI VIA SOLFERINO
L’ultima partita si gioca sul Corriere della Sera. Nell’aprile 2012, Fiat e Mediobanca ribaltano il consiglio di amministrazione, spingendo a uscire i rappresentanti diretti degli azionisti, primo tra tutti Diego Della Valle che non nasconde l’aspirazione a diventare il nuovo punto di riferimento.
Il Corriere esercita un’attrazione fatale che attraversa le generazioni e rimanda al mercato delle influenze. In molti bussano alla porta. Il re degli ospedali privati milanesi, Giuseppe Rotelli, ha già un piede sull’uscio. Nel club entra persino Unipol, avendo acquisito la quota di Salvatore Ligresti: da via Stalingrado a via Solferino. Mentre il patron della Tod’s, libero dagli accordi di sindacato, ha cominciato a comprare quel poco che resta sul mercato.
La Rcs è davvero così importante? Il gruppo è colpito dalla recessione e dal calo di pubblicità, dalla rivoluzione tecnologica (tablet, social media) che scompagina l’editoria di carta, da investimenti sbagliati come la francese Flammarion o sfortunati come la spagnola Unidad Editorial che stampa il quotidiano El Mundo. Dunque, non è per far soldi che conta il Corriere. Il giornale della borghesia ha un fascino antico, ma soprattutto conferisce a chi lo controlla un forte ascendente politico. E non da adesso. È esattamente per questa ragione, del resto, che Gianni Agnelli era entrato per la prima volta in via Solferino nel 1973.
La presa sul Corriere si copre di significati non solo simbolici nel momento in cui, tra il 2011 e il 2012, si indebolisce e si sfalda il sistema di alleanze costruito attorno a Silvio Berlusconi. La caduta di Ligresti ne è un esempio lampante. Mentre la crisi imprime ferite profonde. Il valore azionario dei grandi gruppi italiani, comprese le principali banche, dal 2007 al 2012 è precipitato. Hanno resistito davvero in pochi.
LA METAMORFOSI
Scrive Fulvio Coltorti, storico capo dell’area ricerche e studi di Mediobanca, che tra il 1995 e il 2010, il valore aggiunto ai prezzi correnti delle compagnie italiane affiliate ai maggiori gruppi è diminuito del 16%, mentre quello delle imprese che formano il quarto capitalismo è cresciuto del 32% con un picco del 57% nel 2007: le grandi, tradizionali imprese manifatturiere si sono ridotte rapidamente. L’unico gruppo che ha mantenuto la sua taglia è la Fiat che, nondimeno, ha finito il 2009 con una forza lavoro ridotta del 39 per cento. In aggiunta, si è divisa in due e la parte maggiore si è unita alla Chrysler. La dimensione di questa nuova entità, che è sempre più difficile descrivere come italiano, è grosso modo uguale all’intero gruppo Fiat del 2009.
Sono emersi nuovi soggetti, non molti e soprattutto nell’industria leggera. Il più grande è Benetton, una conglomerata in cui l’originale business dell’abbigliamento si è fuso e combinato con la finanza, servizi di pubblica utilità (Autostrade) e servizi commerciali (Autogrill) per lo più acquisiti attraverso le privatizzazioni degli anni ’90. Poi c’è Luxottica, il solo gruppo ad aver aumentato il proprio core business. Ci sono altri dodici gruppi, per lo più nuovi arrivati, cresciuti in parte con le privatizzazioni (un esempio è Riva nell’acciaio) e in parte attraverso acquisizioni, soprattutto in beni durevoli. Nessuno nella manifattura o nelle alte tecnologie. In breve, solo un gruppo privato resta tra le imprese europee con più di centomila ocupati: la Fiat che si appresta a spezzare le sue radici nazionali.
Un terremoto che si chiama globalizzazione ha spappolato la grande industria in Italia. Al contrario, l’Europa presenta un’élite abbastanza stabile di imprese in termini di taglia e di crescita. Intanto, con la recessione del 2011-1012, anche le multinazionali tascabili del quarto capitalismo che tanto piacciono a Coltorti, si leccano le ferite. Il vecchio sistema è scoppiato, il nuovo non si intravede ancora, il capitalismo italiano è entrato nella sua linea d’ombra.