La fine delle banche troppo grandi per fallire (e per essere salvate) potrebbe essere vicina. Al Congresso è in aumento il partito di chi vuole porre fine al predominio finanziario di poche istituzioni finanziarie, considerate talmente grosse da non essere a conoscenza di ciò in cui hanno investito. Divisione fra banche commerciali e banche d’investimento, regolamentazione più serrata per evitare squilibri, aumento del capitale di vigilanza per sopravvivere in caso di shock: la discussione verte intorno a questi punti. Ma è il primo quello che conta di più. E se finora erano solo i democratici a voler la netta divisione fra le attività commerciali e d’investimento delle banche, ora sono anche i repubblicani che stanno attaccando Wall Street.
La riforma di Wall Street fortemente voluta da Obama è fallita? È questa la domanda che rischia di non far dormire sonni tranquilli al presidente americano. I casi di distorsione dei mercati sono tanto estesi quanto irrecuperabili, come dimostra il recente caso di Bats, il terzo operatore borsistico statunitense. O come nel caso di J.P. Morgan e della “London whale”, il trader che aveva aperto posizioni su derivati in modo così massivo da poter mettere in pericolo l’esistenza della banca stessa.
Come riporta il Financial Times, i punti di vicinanza fra repubblicani e democratici sul tema dello spacchettamento delle grandi banche sono sempre di più. C’è poi un altro aspetto che potrebbe garantire una maggiore velocità al fenomeno. Il presidente Obama, sicuro che non potrà più sedersi nello Studio ovale, ha più margini operativi per una effettiva riforma finanziaria. I democratici continuano a essere per la divisione fra banche commerciali e banche d’investimento. In pratica, una riproposizione del Glass-Steagall Act, la legge bancaria del 1933. Questa venne poi cancellata nel 1999 dal Gramm-Leach-Bliley Act, creato appositamente per permette la fusione fra Citicorp e Travelers Group, che diede vita alla Citigroup che conosciamo ancora oggi.
«Il problema non è tanto la misura, quanto la complessità delle banche». È questo quello che dice a Linkiesta Mark Dow, hedge fund manager con un passato al Fondo monetario internazionale e al Tesoro americano. La sua visione è pragmatica. Con il crollo di Lehman Brothers si è vista la ramificazione del sistema bancario mondiale. Per le banche, come per altri settori finanziari, vale il “Butterfly effect”, secondo cui un evento relativamente minimo in un’area può avere effetti devastanti in un’altra area. È questo il punto su cui bisogna agire. Le dimensioni si possono gestire, le interconnessioni no. Tuttavia, per Dow «la finestra per il cambiamento è chiusa». Quello che si sta vedendo è da considerarsi «rabbia residua di Main Street nei confronti di Wall Street». Inoltre, per Dow non possono sottovalutare gli effetti collaterali di un’eventuale ridimensionamento delle banche americane. «La fine dell’era delle grandi banche americane rischia di porle in svantaggio rispetto alle altre banche internazionali», dice Dow.
Nello scorso luglio sono arrivate pesanti critiche all’attuale sistema anche da Sandy Weill, amministratore delegato di Citigroup al momento della sua fusione con Travelers Group. «Bisogna dividere le attività commerciali da quelle di negoziazione, non c’è nessuno che sia too big to fail (troppo grande per fallire, ndr)», disse Weill.
Ma tornare indietro è difficile, oneroso e forse inutile. Così la pensa Neil Barofsky, ispettore generale del programma Troubled-asset relief program (Tarp), il piano salva-banche Usa nato nel 2008. «Si aggira solo il problema – dice a Linkiesta – dato che in ogni caso ci saranno zone opache in cui ci saranno gli squilibri maggiori». È questo il mondo dello shadow banking, il sistema bancario ombra che vale più di 67.000 miliardi di dollari, fatto da intermediari finanziari non bancari, o Non-bank financial intermediaries (Nbfi). «Pensiamo ai fondi d’investimento, ai veicoli esterni, a tutto quello che non entra nei bilanci ufficiali. La banca è come un iceberg: si vede solo la punta», dice Barofsky. E quello che è nascosto è potenzialmente più dannoso di ciò che si vede.
Obama, dopo aver spinto per una riforma all’acqua di rose, ha deciso che vuole spingere sull’acceleratore. A Wall Street c’è però una figura che, si narra, sia più importante del segretario del Tesoro. Questa persona è Jamie Dimon, il numero uno di J.P. Morgan. Come scrisse una volta il Dealbook del New York Times, «nessuno è sia banchiere sia politico. Jamie Dimon sì. Ed è per questo che il regno di Wall Street non perderà di smalto fintanto che Dimon sarà nell’arena». Erano i giorni precedenti all’approvazione del Dodd-Frank Act, che prima di passare al vaglio del Congresso subì così tanti cambiamenti che perfino i suoi ideatori facevano fatica a riconoscerlo. La riforma cambiò. Vinse Dimon. Vinse Wall Street.
Ora il vento è cambiato. Se perfino i repubblicani si stanno avvicinando a posizioni simili a quelle liberal, significa che un nuovo modello per le banche statunitensi è possibile. Dopo gli eccessi della finanza degli ultimi anni cosa fare? Se è vero che il mondo dei subprime, ovvero i mutui concessi anche a chi non avrebbe avuto le credenziali minime per richiederlo, si è ridotto notevolmente, è altrettanto vero che il deleveraging è ancora lungo. La riduzione degli attivi, del leverage e della dimensione delle banche, anche come forza lavoro, è già iniziata. Ma da qui a definire un piano di separazione fra banche commerciali e banche d’investimento il passo è lungo. Specie perché è cambiato il modo di intendere la banca stessa.
Con il Gramm-Leach-Bliley Act sono nati giganti finanziari che hanno appena la parvenza di una banca. Uno degli esempi può essere quello di GMAC, la divisione finanziaria di General Motors. Ma la stessa Citigroup è diventata in fretta un soggetto così grande e così ramificato da essere quasi impossibile da gestire. «È come guidare un’utilitaria con il motore di un jet: può solo avere l’illusione di averne controllo, che non avrai mai», scrisse nel corso del 2009 l’economista Greg Mankiw. Ma tornare indietro solo per motivi politici non solo potrebbe essere inutile, ma dannoso per l’intero sistema. «Meglio un lungo, lento e meglio strutturato deleveraging», disse Mankiw. Il problema è che per farlo, come scrisse Goldman Sachs nel 2011, ci vorranno decenni, non anni.