«Sarà il cambio di stagione», hanno detto ad Anna la prima volta che è andata alla polizia. La seconda volta hanno provato la via dell’ottimismo: «Vedrà che si calmerà, che gli passerà». La terza volta Anna s’è fatta accompagnare da un avvocato al solito commissariato nel centro di Roma, ed ha visto finalmente tradurre la sua paura in una formale querela per stalking. E c’è stata poi una quarta volta, e ancora una quinta. Ecco, alla quinta Anna ha dovuto aspettare che finisse la partita per trovare un agente pronto a guardarla in faccia, il viso gonfio per quel cazzotto sul mento. «Novanta giorni», le hanno dettato l’agenda della paura: tre mesi per trasmettere la denuncia al magistrato. Il vuoto s’è palesato come una certezza: un uomo libero di rovinarle la vita, di seguirla sotto casa e al bar, di minacciarla al telefono del luogo di lavoro decine di volte al giorno. Un uomo libero di aggredirla. Libero, lui. Con una vita in stand-by, lei.
La storia di Anna è una storia di ordinario stalking nell’era della vigente legge anti-stalking: l’art. 612 bis del codice penale (“Atti persecutori. Stalking”). Che punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni “chiunque, con condotta reiterata, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Una buona legge a detta di molti, entrata in vigore nel 2009 e che riguarda più di un milione e 150.000 donne l’anno (anche se l’ultima ricerca dell’Istat è relativa al 2006). Ma la realtà è una cartina spiegazzata, e in quelle pieghe si nascondono le mancanze e le storture del sistema, tali da riuscire a trasformare la sicurezza della legge nell’insicurezza dell’applicazione.
Perché quei “mesi” di tempo franco, di libertà incondizionata lasciata al presunto stalker di Anna gridano vendetta. Il codice di procedura penale, all’art. 347 (“Obbligo di riferire la notizia del reato”), dice esplicitamente: “Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria, senza ritardo, riferisce al pubblico ministero, per iscritto, gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute, delle quali trasmette la relativa documentazione”. E invece c’è la violenza soffusa del sorrisetto sminuente, il senso di solitudine, la giustizia che fa il suo lentissimo corso non preoccupandosi affatto di disinnescare così il principio stesso della nuova e sfavillante legge anti-stalker: dare protezione. Al momento della pubblicazione di questo articolo Anna è ancora sola, in attesa che il magistrato incaricato faccia il primo passo.