Neil Armstrong non era suo parente, nemmeno alla lontana, e nemmeno il passo compiuto da Lance Armstrong è minimamente paragonabile a quello compiuto dal compianto Neil sul suolo lunare. Così, il «piccolo passo di un uomo è diventato giustamente un grande balzo per l’umanità», mentre il passo di Lance, che ha deciso di parlare e aprirsi davanti alle tivù di mezzo mondo, è risultato un passettino: una piccola confessione per un piccolo uomo. Per la serie: bastava un tweet. Era sufficiente che Oprah Winfrey gli domandasse: «Ti sei dopato?». E lui rispondesse: «Si». Fine della confessione e delle trasmissioni. Risparmiati 90 minuti di ovvietà e vuoti. Non ha aggiunto nulla. Soprattutto non ha spiegato niente e non ha portato alla luce nessun elemento che possa servire a migliorare il ciclismo e lo sport in genere.
A sentire il texano, ha fatto tutto da solo. Senza l’aiuto di nessuno. Senza la complicità di alcuno. Ha fatto quello che il 95% dei corridori facevano in gruppo. Quindi: il più forte e il più bravo è sempre lui. Il più bravo dei dopati. A questo punto, però, la vera purificazione sportiva passa solo attraverso una confessione giurata davanti ad un tribunale sportivo. Davanti a membri del Cio, il governo mondiale dello sport. Davanti ad esperti della Wada, organismo mondiale dell’antidoping.
Non certo a quelli dell’Uci, che possono continuare a dire quello che vogliono, ma delle due l’una: o i loro sistemi antidoping sono semplicemente ridicoli (il texano si è sottoposto negli anni a più di 500 controlli senza mai risultare positivo), oppure – come sostiene da tempo l’australiano Michael Ashenden, fisiologo australiano, ex collaboratore dell’Uci, considerato il massimo esperto al mondo di doping ematico – il governo mondiale del ciclismo ha un ruolo centrale in tutta questa torbida vicenda.
Lo scienziato australiano ha abbandonato il “panel” dell’Uci che valuta i passaporti biologici, di cui era stato promotore e ideatore, proprio perché a disagio. Ha abbandonato e ha denunciato. In Italia (noi de Linkiesta tra i pochi), hanno dato voce a questo studioso che ha pubblicamente denunciato i suoi dubbi sul funzionamento del passaporto e soprattutto sul modo in cui l’Uci conduceva i controlli sul sangue destinati a “costruire” il profilo di ciascun corridore, in più di un’occasione. Dubbi pesanti: «In alcuni dei profili ematici che valutiamo – aveva detto Ashenden a Cyclingnews.com – ci sono dei “buchi” inspiegabili tra un controllo e un altro. Non li capisco: la strategia che sta perseguendo l’Uci mi sfugge».
Quindi, a questo punto, Armstrong se vuole davvero essere creduto e rifarsi una verginità, deve non solo parlare ma spiegare. Motivare. Fare dei nomi. Ma a loro volta, anche le organizzazioni mondiali dello sport devono fare la loro parte: mettere spalle al muro in maniera definitiva il texano reticente.
La stampa americana, britannica e australiana non ha guardato in faccia a nessuno e ha svolto il suo onestissimo lavoro di verità pagando prezzi altissimi. Non si può dire che in Italia sia stata fatta la stessa cosa. Armstrong per anni non solo ha negato, ma ha ribattuto colpo su colpo con querele e vittorie sul campo. Il “Sunday Times” ha dovuto pagare nel 2006 al texano 360 mila euro dopo che lo aveva diffamato parlando per la prima volta di doping.
Ora però, con le squalifiche di Usada e Wada dopo le prove che parlavano «del sistema più sofisticato mai utilizzato per doparsi», il “Sunday Times” vuole indietro quei soldi con tanto di richiesta danni quantificabili in 1,2 milioni di euro. Per la serie: chi semina vento raccoglie tempesta.
Sono in tanti ora a rifarsi sotto e a chiedere quattrini. Come la SCA, assicurazione americana, sponsor dell’americano, che ora torna all’attacco dopo essere stata costretta a pagare al corridore 7,5 milioni di dollari. In passato anche la SCA tentò di non pagare 5 milioni di dollari ad Armstrong a causa di sospetti di doping, ma quest’ultimo fece loro causa e la SCA perse non solo i 5 milioni, ma altri 2.5 per spese legali ed interessi. Ora anche questa importante compagnia assicurativa è pronta a ripassare all’attacco.
E lo stesso faranno le poste americane (Us Postal, ndr), che hanno pagato oltre 30 milioni di dollari in sponsorizzazioni alla squadra di Armstrong dal 1999 al 2004 come parte di un contratto che metteva al bando il doping e lo stesso farà Floyd Landis, ex compagno di squadra e grande accusatore del texano, finito per questa vicenda in miseria. Insomma, dietro a questa lotta verso la verità, c’è un uomo baro e arrogante e dall’altra aziende che hanno fatto di tutto per non farsi prendere in giro.
Non scherzano gli sponsor, men che meno i media, che sono in piena battaglia: meno che da noi. Nel nostro Paese ad Armstrong abbiamo fatto solo ponti d’oro: dagli organizzatori del Giro al giornale organizzatore. “La Gazzetta dello Sport”, ne ha parlato fino all’ultimo, anche dopo il suo ritiro e in piena bagarre giudiziaria. Nell’aprile dello scorso anno, dieci mesi fa, è uscita una pagina intera a lui dedicata perché prossimo a disputare il Triathlon di Nizza. Una pagina intera su un ex corridore inseguito dalle procure di mezzo mondo. Non male no?
Sono di ieri, invece, le scuse pubbliche dello storico commentatore della tv belga RTVB, Rodrigo Beenkens. «Presento le mie scuse ai telespettatori di RTBF – ha scritto su Twitter – perché il mio compito era raccontare dei sogni e invece ho venduto menzogne. Una situazione irrimediabile. A mia difesa, ho solo la buona fede…». Molti, in Italia, dovrebbero fare altrettanto.
* direttore di tuttoBICI e tuttobiciweb.it