Da quando il giocherello antico e sempre gustoso di prendere una solenne fregatura al cinema, per via di una fottutissima critica di giornale, si è fatto tafazzianamente troppo doloroso – vuoi perché di tempo e di soldi da perdere ne abbiamo sempre meno, vuoi perché tendiamo ormai a considerare il signor critico alla stregua di un pallonaro perdigiorno – i comuni mortali hanno cominciato a organizzarsi in gruppi di sopravvivenza cinematografica, credendo così di poter controllare meglio il rischio di addormentarsi irrimediabilmente durante la proiezione dell’ultimo, pompatissimo, prodotto.
È invalso l’uso, infatti, di scrivere per sé ciò che non si vorrebbe (più) farsi consigliare dagli altri, “piazzando” il prodotto su tutte le piattaforme possibili, tutti i blog, tutti gli angolini di scrittura. Sui quali, peraltro, non è così raro ritrovare gli stessi accenti tromboni dei succitati critici così sotto tiro, ma in una riedizione rovesciata e involgarita: nessuna analisi intellettuale del prodotto, nessun riferimento né alto nè basso alla storia del cinema, zero parallelismi, semplicemente quattro espressioni (in croce) da arrogantelli che intenderebbero farsi ascoltare, tipo: «Ho dormito come un ghiro», «mi sono rovesciato dalle risate» (quando si sarebbe dovuti star seri), «ma che palle» e via di facezia in facezia. Subireste mai una critica anche da uno solo di questi nuovi interpreti?
Ecco, queste sono persone molto, molto, più pericolose di qualsiasi critico, anche il più malaccorto, anche il più sprovveduto, anche il più «cane», per trovare un sostantivo tanto caro al mondo del cinema. Sono persone che non riconoscono neanche in minima parte la fatica di un mestiere, la sua preparazione, la passione, lo studio profondo che nel corso degli anni porta ad analizzare un film come uno scienziato una particella in laboratorio. Con lo stesso scrupolo, con l’idea che ciò che si trasferirà all’esterno sarà frutto di un grande senso di responsabilità, oltre che di una conoscenza diffusa. Sono persone che rifiutano in radice la sola possibilità che l’altro abbia titolo (professionale, morale, etico, scientifico, sportivo, ecc.) per «dirci» qualcosa – non per imporcela, ma semplicemente dircela, porgerla con tutto l’amore possibile del proprio mestiere.
Fregature al cinema ne abbiamo prese molte, e tutti. E abbiamo regolarmente maledetto quel critico che ce ne aveva consigliato caldamente la visione con argomenti evidentemente convincenti. Un tempo, forse si selezionava la specie, scartando gli acclaratamente inattendibili: quante fregature prima del cartellino rosso, due, tre, cinque? Comunque, a un certo punto della nostra storia la mappatura si faceva sempre più definita e ognuno stabiliva i suoi cavalli di riferimento.
Soprattutto stabiliva anche un’indipendenza di giudizio, con tutte le fatiche e le debolezze del caso. Quella condizione, cioè, di progressiva separazione dal proprio “pusher” cinematografico, dopo esserne stato schiavo per molto e molto tempo. E farti uscire dal tunnel, in fondo, era l’obiettivo più alto anche per il professionista del settore, orgoglioso che l’insegnamento di anni avesse prodotto uno spettatore finalmente indipendente, in grado di intercettare le sensibilità di un film anche dai piccoli particolari, persino da un trailer o, roba per feticisti puri, trarre qualche auspicio addirittura da una semplice locandina.
Due sono stati i miei Indiscutibili. Uno, incontrato proprio sul lavoro: Morando Morandini, critico de «Il Giorno». Gigante assoluto, di cui non potervi narrare per evidente conflitto di interesse. L’altro, seguito con amore sul giornale più importante d’Italia, il Corriere della Sera: Tullio Kezich.
Ci sarebbe da passare ore a parlare del triestino che non era azzardato definire un autentico monumento della critica cinematografica e di cui potete ritrovare tutto ciò che vi serve sulla Rete. Leggere Kezich, che è stato drammaturgo di spessore, era già andare al cinema, era come sprofondare in poltrona per seguire la lectio magistralis di un critico illuminato. Che avrebbe potuto sussurrare anche ai cavalli, tanto sapeva modulare ogni sentimento, ogni sfumatura, a uso del lettore. Quante cose abbiamo appreso, quante ne abbiamo imparate! Non le ricordo più le sue «fregature», se mai ci sono state (e ci saranno state). Ma le ho sempre vissute come l’invariabile modulazione del pensiero umano, che porta le persone a guardare alle cose con sfumature diverse.
Ecco perché considero pericolosi quelli che nella critica cinematografica (e nella vita) vogliono imporre le loro semplificazioni a botte di “che palle” o “che sonno”.