Quando Luigi Pirandello scrive I vecchi e i giovani il tema è che cosa rimanga della stagione del compimento dell’Unità. È il 1911 quando Pirandello pubblica quel romanzo e raduna i capitoli che ha anticipato tra 1909 e 1910. La sua intenzione se non dichiarata, certamente esplicita è quella di proporre un bilancio di generazione. I vecchi a cui il titolo allude sono quelli che intorno al 1860 sono i venti-trentennni e che, dunque, proiettano su quell’evento le ipotesti di un futuro migliore, comunque la possibilità di cambiare. I giovani sono quelli che cinquant’anni dopo hanno venti anni e che si sono integrati e guardano a quella generazione con supponenza.
Una storia che si ripete a ogni generazione, si potrebbe dire. Ma non è così e io ho la convinzione, oltreché la sensazione, che quella vicenda riguardi anche noi oggi, qui a fare i conti non solo con ciò che rimane della Italia democratica e repubblicana, ma anche di quell’evento fondatore rappresentato dalla Resistenza e da quell’atto di coscienza pubblica rappresentato da ciò che riempie il “giorno della memoria”, ormai diventata l’unica data condivisa, di un paese che oggi non riesce a comunicare un’identità collettiva e minacciato dall’onda emotiva di “mi faccio i fatti miei” e “padroni a casa nostra”.
In mezzo c’è un soggetto che Pirandello non ha previsto, ma che invece è parte essenziale di quel confronto che oggi è in atto in Italia e che funge da attore terzo. Sono quei giovani, i non ventenni e una parte esigua ma significativa dei “non garantiti”, comunque di quelli nati negli anni Ottanta, che si sentono investiti di una funzione civile, che avvertono la crisi del patto costituente e che si misurano con il problema di contribuire a costruire, oltreché se stessi, anche una generazione che abbia il senso del passato. È una generazione che da noi, intendo da quelli della mia generazione, ha avuto in abbondanza la precarietà.
Il “giorno della memoria” se avrà ancora un domani, e qualunque fisionomia assumerà domani, ha una chance di vita solo se questa fascia di minoranza avrà spazi culturali, operativi e anche dando gambe alla propria sensibilità. Ovvero se riuscirà a farsi largo tra un fila sempre più esigua di sopravvissuti, una generazione di miei coetanei che pensano di essere gli eredi di quella storia e che spesso rivendicano un ruolo di protagonisti o di voci testimoniali per conto terzi e una massa di “spettatori tiepidi” pronta a dire “mai più” per abitudine. Di fronte c’è una massa di adolescenti, spesso i figli della mia generazione, a cui noi non sappiamo parlare, e a cui non siamo in grado di raccontare, da cui ci separa un gap tecnologico, e di cui spesso ignoriamo i codici di sensibilità, di linguaggio, di emozione.
Ci dovremmo pensare, credo, se siamo convinti per davvero, che il giorno della memoria non è un atto celebrativo, ma un modo di comunicare consapevolezza del passato tra generazioni.