La situazione è «esplosiva e incandescente». Alle parole del procuratore capo di Siena che fotografano i prevedibili sviluppi giudiziari su Banca Monte dei Paschi, si contrappone la nonchalance ostentata da protagonisti e comprimari dello scandalo bancario forse più grave dai tempi dell’Ambrosiano.
Giuseppe Mussari, a banca già sbancata, è stato confermato presidente della lobby bancaria (Abi), ruolo che ha ricopertofino all’altro ieri, con la benedizione di tutti i banchieri, inclusi i padri nobili. Il presidente della Fondazione Mps Gabriello Mancini ha minacciato l’azione di responsabilità contro Mussari, anche se ne aveva condiviso le scelte più rilevanti. Il capo della lobby delle fondazioni bancarie (Acri), Giuseppe Guzzetti, si è accorto solo qualche giorno fa che la predetta fondazione «ha uno statuto illegittimo e ha violato la legge Ciampi». Mario Draghi, presidente della Bce e già governatore della Banca d’Italia negli anni in cui il bubbone si è formato, è sceso da Francoforte a Milano per incontrare il ministro Vittorio Grilli: la sera prima dell’audizione del ministro davanti alla Commissione finanze della Camera.
Giunto al momento cruciale, rendicontare il proprio operato di fronte al Parlamento – una cosa che in America fa scattare sull’attenti il segretario al Tesoro – ieri Grilli si è seduto accanto al presidente della Commissione (la cosiddetta separazione dei poteri) e ha pronunciato la sua autoassoluzione. Doppia autoassoluzione: come ministro dell’Economia e come ex direttore generale del Tesoro. Il ministro ha anche depositato un documento della Banca d’Italia che ricostruisce la cronologia interventi sul gruppo Mps: «Nel complesso, un’intensa attività di vigilanza che ha consentito di individuare e interrompere comportamenti anomali a elevata rischiosità». Per Grilli, Draghi e per l’attuale governatore Ignazio Visco, insomma, la cosa potrebbe anche chiudersi qui: derubricata alle cronache giudiziarie fra documenti occultati e tangenti; o annegata nelle più ampie responsabilità della politica. C’è un po’ di vero in questo. Solo che bisognerebbe intendersi bene su cosa sia politica.
C’è la politica del Pds-Ds-Pd, partito storicamente radicato in provincia di Siena: ha nominato i vertici della Fondazione Mps, che in quanto azionista di controllo ha indicato quelli della banca. Poi ci sono le politiche di chi per legge esercita la vigilanza sulle fondazioni, che «ha per scopo la verifica del rispetto della legge e degli statuti, la sana e prudente gestione», la diversificazione degli investimenti (art. 10 del decreto applicativo della legge Ciampi): i ministri dell’Economia dal 2006 a oggi (Padoa Schioppa, Tremonti, Monti, Grilli) e i direttori generali del Tesoro (Grilli dal 2005 fino al novembre 2011).
Poi ci sono le politiche e le scelte dell’istituzione che verifica i requisiti di professionalità di chi amministra le banche: la Banca d’Italia. Per esempio, aver permesso che un avvocato di provincia senza alcuna esperienza né di banca né manageriale assumesse nel 2006 la presidenza del Monte dei Paschi di Siena, è un errore di valutazione tecnica o è un accomodamento politico? La domanda, peraltro, potrebbe estendersi a buona parte dei componenti del cda di Mps della passata gestione, come pure di altre banche e assicurazioni.
Ci sono, poi, le politiche di chi vigila sugli assetti proprietari delle banche: di nuovo, la Banca d’Italia. Per esempio, avere permesso che l’azionista di controllo proseguisse nel rapporto incestuoso con la banca è un errore tecnico, un problema normativo o un accomodamento politico?
La ricostruzione della Banca d’Italia non poteva che cominciare con un ritorno sulla scena del delitto: Antonveneta, che è costata la poltrona all’allora governatore Antonio Fazio. Nel 2005 si voleva far comprare la banca padovana a un’altra banca (la Bpi di Fiorani) che non aveva spalle abbastanza larghe. Nel caso sotto i riflettori oggi, invece, la Antonveneta è stata comprata da un istituto, Mps, che si è ritenuto avesse le spalle larghe a sufficienza, anche se poi è emerso che non era proprio così. «Il costo dell’operazione ammonta a circa 9 miliardi, di cui 6 miliardi di avviamento», si legge nel documento depositato ieri alla Camera. L’avviamento sarebbe una teorica capacità di fare profitti. Per la cronaca, Antonveneta ne fece 408 milioni netti nel 2006, e -6 milioni nel 2007.
Ovviamente, non si può pretendere che la Banca d’Italia, con l’allora governatore Draghi e la responsabile della Vigilanza Anna Maria Tarantola, avessero la sfera di cristallo: chi poteva prevedere Lehman e tutto il resto, fino allo spread Btp-Bund? Tutto questo, però, avveniva dopo che erano emerse serie minacce alla stabilità internazionale (crisi dei subprime) e alla tenuta dei prezzi delle attività finanziarie. Rileggere alcuni passaggi delle Considerazioni finali del 2006 e del 2007, può offrire qualche sfumatura in più sul contesto in cui è maturato l’ok di Draghi a Mps-Antonveneta.
Dalla fine del 2009, però, non c’è più spazio per le sfumature. Un rapporto ispettivo interno di Mps traccia una linea di demarcazione sulla storia recente di Mps: carenze organizzative gravi, gestione inadeguata dei rischi finanziari, sospetti di creste sulle transazioni realizzate dall’Area finanza, conflitti di interessi nella gestione dei fondi pensione dei dipendenti. Il rapporto sarà stato certamente visionato dagli ispettori che comunque, in proprio, rilevano tutti i problemi della banca senese presieduta da Mussari, come dimostra il verbale degli accertamenti pubblicato da Linkiesta. Santorini e tutti gli altri veicoli, le spericolate operazioni di pronti contro termine e asset swap con Nomura e Deutsche Bank saltano fuori. Ma che cosa succede da allora?
Banca d’Italia, va riconosciuto, non se ne sta con le mani in mano: il monitoraggio sulla banca cresce, e più tardi arriva una nuova ispezione. Nel frattempo viene realizzato un aumento di capitale di oltre 2 miliardi a metà 2011. Ma gli assetti proprietari della banca, però, non cambiano: Via Nazionale acconsente che la fondazione si indebiti fino al collo per mantenere il controllo, dando in garanzia azioni della banca. Anche qui: siamo di fronte all’errore di consentire che il controllo di una banca fosse esercitato a leva oppure sono prevalse considerazioni politiche?
L’andamento del portafoglio titoli e derivati di proprietà di Banca Mps (fonte: bilanci societari)
Colpisce l’assenza di provvedimenti sanzionatori, salvo quelli scattati sui rilievi emersi negli accertamenti più recenti (2011 e 2012). «Sul veicolo Santorini, dall’ispezione [2010, ndr] non emergono elementi probanti», dice oggi Bankitalia. Quanto al veicolo Alexandria non era ancora noto il “contratto quadro”, scoperto dal nuovo management lo scorso 15 ottobre. Allo stato delle informazioni, però, appare difficile sostenere che senza il contratto-quadro (probabilmente l’Isda Master agreement, uno standard di settore) non si potesse determinare il valore di mercato delle operazioni con Nomura e Deutsche Bank e indicarlo correttamente in bilancio, osservano gli specialisti di derivati e finanza strutturata.
Forse non si poteva fare nulla? Nel 2007, proprio per uno scandalo sui derivati, la Banca d’Italia ordinò la rimozione del cda di Banca Italease (v. comunicato) e il divieto di porre in essere nuove operazioni in derivati. Nel caso di Mps, invece, non accadde nulla di tutto questo: anzi, come si evince dai bilanci di Mps, la banca senese non venne fermata e continuò ad attuare le sue spericolate strategie speculative di carry trade (v. tabella), salvo una breve riduzione nei mesi in cui gli ispettori stazionavano a Rocca Salimbeni. Così, il portafoglio titoli e derivati di proprietà continua a lievitare: da 26,8 miliardi di fine 2009 a 38,2 del 2010 fino a superare 40 miliardi al 30 settembre 2011, quando lo spread Btp-Bund ha ormai oltrepassato i livelli di guardia. L’assenza di un adeguato controllo dei rischi, le carenze organizzative e informative, «i disallineamenti tra rilevazioni contabili e gestionali…, l’indisponibilità di informazioni di dettaglio», non meritavano quindi alcuna sanzione oppure sono prevalse altre considerazioni?
L’audit interno, nel 2009, l’aveva detto: «I rischi associati a tali operazioni sono notevoli: possibile downgrade e/o allargamento degli spread sulle emissioni del governo italiano, elevato rischio emittenti e considerevoli effetti anche in termini di incremento degli assorbimenti patrimoniali». Anche il verbale ispettivo letto al cda di Mps è esplicito: «L’esigenza di recuperare margini reddituali ha indotto a perseguire strategie di carry sull’intero bilancio e d’investimento a leva in titoli governativi italiani».
A Siena, dunque, la banca tradizionale non macinava utili, ma anziché cercare una soluzione industriale ai problemi, in parte dovuti anche alla cattiva gestione dell’integrazione con Antonveneta, si è permesso che Mps arrotondasse con la finanza speculativa. È questa una scelta di policy di cui Draghi, Tarantola e Visco dovrebbero rendere conto in Parlamento. Oppure ci si deve ritenere soddisfatti dalla cronologia degli interventi recapitata a mezzo Grilli? Forse, riferiscono fonti finanziarie, Banca d’Italia contava di risolvere la grana attraverso il classico salvataggio di sistema. Nel corso del 2011 si parlò a lungo di una fusione fra Mps e Intesa Sanpaolo, che alla fine non si fece. E a Siena sono rimasti con in mano un cerino che ora rischia di scottare anche la reputazione di Draghi e della Banca d’Italia di Visco. Sostenere, come fa il governatore in carica, che «di sicuro negli ultimi due o tre anni c’è stata molta attenzione sullo stato della liquidità della Banca Mps che era molto compromessa» è ammettere solo un pezzetto di un azzardo finanziario ben più grande. Un azzardo che ha anche impatti di liquidità ma che non comincia lì e che adesso viene scaricato sulle spalle dei contribuenti.
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