La notizia arriva improvvisa e inaspettata la mattina dell’8 gennaio, accompagnata da un videoclip prontamente fatto circolare in Rete e dall’annuncio di un nuovo album a marzo, seguito forse – ma la notizia sembra alquanto improbabile – da un tour: ritorna David Bowie. Notizia che per i più distratti potrà non sembrare insolita, poiché le rockstar attempate che puntualmente rientrano in pista dopo uno o più giri in panchina sono ormai all’ordine del giorno. Bowie, tuttavia, è stato il grande assente dalle cronache musicali dell’ultimo decennio, un lasso di tempo in cui, per di più, si sono concessi spazi crescenti alle vecchie glorie del rock, segnale non sempre felice di una cultura musicale non più in grado di immaginare il proprio futuro. Dopo l’annullamento delle ultime date previste per il tour del 2004, a causa di problemi cardiaci che avevano costretto l’artista a sottoporsi ad una operazione di angioplastica d’emergenza, Bowie era apparso una sola volta in pubblico, nel 2006, in occasione di un evento benefico, esibendosi in un duetto con la cantante Alicia Keys.
Le voci di uno stato di salute precario si sono moltiplicate nel corso del tempo, ispirando addirittura canzoni: è il caso di “Is David Bowie Dying?”, incisa lo scorso anno dai Flaming Lips con il contributo di Neon Indian. Bowie non ha mai smesso di abitare i piani alti dell’immaginario collettivo e il suo silenzio non ha fatto che amplificarne l’assenza. Alcuni mesi fa la notizia di una imponente mostra londinese dedicata ai costumi di scena dell’artista, “David Bowie Is”, quasi una cronistoria iconografica, aveva ulteriormente intensificato l’assordante silenzio, facendo sperare in un coup de theatre fuori tempo massimo. Che in effetti c’è stato: difficile immaginare, anche per i più dietrologi tra i fan, che l’inaugurazione della mostra a marzo potesse coincidere con un ritorno in scena vero e proprio.
La canzone scelta per promuovere il nuovo disco, “Where Are We Now?”, diffusa in occasione del sessantaiesimo compleanno della rockstar, è una sorta di “gioco” con i propri fan: il luogo di cui si parla nel testo è Berlino, la città in cui, nel 1977, Bowie aveva reinventato per l’ennesima volta se stesso. Dopo essere stato folksinger ancora acerbo ma già ricco di intuizioni in “Space Oddity”, ambigua icona del glam rock con il nome di Ziggy Stardust (la celebre dichiarazione di bisessualità in una intervista del 1972, trovata promozionale dello stesso musicista, cristallizzava, nel non voler scegliere una identità sessuale precisa, la figura della rockstar come eterno teenager), portavoce del soul bianco, Sottile Duca Bianco (così ritraeva se stesso in “Station To Station”, album registrato a Los Angeles al termine di un lungo soggiorno americano caratterizzato da una frequentazione con la cocaina che aveva assunto tinte paranoiche) e “Uomo caduto sulla terra” (nell’omonimo film di fantascienza di Nicholas Roeg, approdo inevitabile per chi aveva giocato a fare l’extraterrestre fin dai tempi dell’alter ego Ziggy), l’artista inglese si era proclamato algido e mitteleuropeo cantore di una nuova era musicale, captando e anticipando di parecchi mesi, con fiuto fenomenale, l’arrivo di quella new wave che avrebbe ben presto stabilito nuovi parametri a partire dalle macerie lasciate dal punk.
“Low” e “Heroes”, i dischi di quel cruciale 1977, non avevano venduto quanto i precedenti, ma gli avevano consentito di sopravvivere alla furia iconoclasta di ventenni decisi a seppellire gli ingombranti anni Settanta con un dilettantismo assurto a manifesto poetico e un bisogno viscerale di azzerare le gerarchie, in primo luogo tra chi era in grado di imbracciare uno strumento e chi non lo era. Non solo, era riuscito addirittura a diventare un pioniere nella nuova era, riverito e influente, attorniato dalle menti più brillanti in circolazione, a partire da Brian Eno, principale complice della svolta berlinese.
Quella operazione di sintonizzazione sul presente non gli riuscirà mai più così bene in seguito e il legame con quello snodo cruciale è evidenziato dalla copertina dell’imminente lavoro in studio, intitolato “The Next Day”. Copertina che, una volta svelata, ha inaugurato lunghe discussioni all’interno della comunità virtuale degli appassionati: la trovata (geniale per alcuni, dozzinale per altri, in ogni caso frutto di una scelta ben precisa) è quella di prendere la copertina di “Heroes”, cancellarne il titolo e coprire il celebre ritratto fotografico in bianco e nero con un riquadro bianco contenente le parole “The Next Day” in un carattere grafico differente e piuttosto anonimo.
La faccenda si fa più seria analizzando il testo di “Where Are We Now?”, nella quale luoghi geografici della Berlino di oggi (Potsdamer Platz, Bose Brucke, Nurnberger Strasse, il club Dschungel, i supermercati DaKeWe) si alternano a sinistre e sibilline frasi pronunciate da Bowie, il quale dice di stare “portando a spasso il morto” (macabro riferimento a sé stesso, alle voci che lo inseguono da tempo?), e, a proposito di un treno preso a Postdamer Platz, afferma: “non avresti mai immaginato che potessi farcela”. La giostra delle illazioni e delle ipotesi ha preso ulteriore velocità quando, il giorno successivo alla rivelazione dell’inatteso ritorno, Tony Visconti, storico produttore coinvolto per l’ennesima volta in studio (si ignorano ancora, invece, i nomi dei musicisti che hanno preso parte alle registrazioni), ha dichiarato alla BBC di non sapere come mai Bowie abbia scelto un pezzo così poco rappresentativo, visto che il disco che lo contiene dovrebbe essere, a suo dire, molto più rock e molto meno intimista. Visconti ha poi aggiunto di aver lavorato in studio con un Bowie in gran forma, smentendo in maniera piuttosto categorica le voci sulla sua salute.
“Where Are We Now?”, in ogni caso, pone fin dal titolo una domanda che suona come una riflessione sul passato (non necessariamente quello personale) e allo stesso tempo suggerisce un interrogarsi sulla propria identità. Chi è David Bowie nel 2013? Lo avevamo lasciato, per la prima volta poco sorpresi dopo i guizzi di “Outside” (che nel 1995 riproponeva il sodalizio con Eno in salsa noir e cyberpunk) e la volontà di stare al passo con i tempi di “Earthling?” (i ritmi erano quelli della jungle di metà anni Novanta, e ancora una volta il titolo, “terrestre?” scherzava sull’ipotesi dell’origine aliena), ad amministrare il proprio glorioso passato con lavori che conservavano l’antica classe ma allo stesso tempo parevano sempre meno incisivi e memorabili. “Hours”, “Heaten” e “Reality”, usciti tra la fine dello scorso decennio e il principio del nuovo millennio, lo facevano sembrare un po’ un sopravvissuto, replicando le evoluzioni degli anni Ottanta successive allo straordinario successo di “Let’s Dance”: frequenti cadute alternate a occasionali guizzi.
La copertina di “The Next Day” sembra voler lanciare segnali di tutt’altro tipo. La volontà è apparentemente quella di tracciare una riga sul passato, pur lasciandolo visibile sullo sfondo, e la promessa di un nuovo inizio sembra davvero manifestare una sincera adesione ai propri moti interiori, ipotesi a cui l’antico creatore di maschere, attore che si è sempre mosso all’interno di scenografie studiate nel minimo dettaglio, non ci aveva mai abituati, perlomeno non in questi termini. O forse si potrebbe trattare dell’ennesima messa in scena, il lungo silenzio una pura strategia promozionale, quella del recluso solo una delle tante maschere. Il che non esclude un terza ipotesi: che Bowie sia sempre stato se stesso soprattutto nell’indossare le proprie innumerevoli identità.