“Efficienza energetica ripagata in 400 anni”, la Ue boccia l’Italia

“Efficienza energetica ripagata in 400 anni”, la Ue boccia l’Italia

BRUXELLES – Ritorno dell’investimento: tra i 288 e 444 anni. Basta solo questo dato per descrivere, nelle parole della Corte dei Conti dell’Unione europea, la dimensione dello sperpero del denaro comunitario – con l’avallo, si noti bene, della Commissione europea – per progetti di cosiddetta “efficienza energetica” in Italia (e non solo). Una “efficienza” tale che per poter portare a un utile (nel rapporto tra costi sostenuti e risparmio energetico) ci vogliono, appunto, tra i tre e i quattro secoli. Per la gioia di euroscettici e denunciatori dei clamorosi sprechi comunitari, questa assurda fotografia campeggia, quasi ignorata, in un rapporto presentato dalla Corte dei Conti, e incentrata su tre dei quattro Paesi (curiosamente manca la Polonia, che è al terzo posto) che ricevono maggiori sussidi con i fondi di coesione proprio per l’efficienza energetica: Repubblica Ceca, Italia e Lituania.

Complessivamente, nel periodo 2000-2013 l’Ue per tutti gli Stati membri ha stanziato 5,3 miliardi di euro (di cui circa 5 nel periodo di bilancio 2007-2013). Nell’ambito dei vari impegni nella lotta al cambiamento climatico, in effetti, nel 2007 l’Ue si è data anche l’obiettivo (non vincolante) di ridurre del 20% i consumi energetici (dei quali circa il 40% è a carico di edifici pubblici, abitativi e commerciali). Traduciamo: noi vi diamo i soldi e voi provvedete a migliorare l’isolamento di porte, finestre, infissi, le perdite di calore e quant’altro. In particolare l’Italia (secondo dopo la Repubblica Ceca), nel periodo 2000-2013 si è accaparrata il 16,2% della “torta complessiva”, per un totale di 873.890.365 euro, di cui allocati per il periodo 2007-2013 ben 417.305.116.

Ebbene, il rapporto della Corte dei Conti Ue disegna un quadro desolante fatto da un mix di cialtronaggine, mancati controlli, assenza o quasi di obiettivi degni di questo nome e calcoli sballati. I giudici di Lussemburgo hanno esaminato in totale 24 progetti per i tre paesi, arrivando a un media totale di ritorno degli investimenti di 50 anni, già di per sé assurdi (anche perché è molto più di quanto possano durare finestre, porte, infissi e quant’altro istallati per ridurre gli sprechi energetici). «In nessuno dei progetti che abbiamo esaminato – ha lamentato Harald Wögerbauer, il membro della Corte responsabile per il rapporto – vi è stato una valutazione del fabbisogno né un’analisi del potenziale di risparmio dell’energia in relazione agli investimenti».

In sostanza, ha detto ancora Wögerbauer, «gli Stati membri hanno utilizzato questi soldi per ristrutturare edifici pubblici mentre l’efficienza energetica era, al massimo, una preoccupazione secondaria». Quel che è peggio è che se l’hanno potuto fare, è perché la Commissione europea, si legge nel rapporto, «quando ha valutato i programmi operativi, non ha chiesto agli Stati membri di giustificare la loro allocazione di fondi per le misure di efficienza energetica sulla base del loro impatto sui costi, né ha preso in considerazione questo elemento nelle proprie consultazioni interne e nei commenti sulle bozze di programmi operativi sottoposte per l’approvazione dalle autorità di gestione». Non basta: «la Commissione non ha monitorato il contributo delle misure (contenute nei progetti, ndr) al raggiungimento degli obiettivi di risparmio energetico per il 2020». Bruxelles, praticamente, ha dato soldi chiudendo non un occhio, ma tutti e due.

Andiamo a guardare in particolare l’Italia, di cui la Corte analizza un programma operativo per la Basilicata, e uno interregionale (Energy Iop). Questo secondo, in particolare, riceve una bocciatura che ha del tragicomico: «L’obiettivo di risparmio energetico è talmente basso – leggiamo – da comportare un periodo lunghissimo per il ritorno dell’investimento (da 288 a 444 anni a seconda dei prezzi energetici)». Un primato persino rispetto alle altre due “pecore nere”: per la Repubblica Ceca il ritorno medio è di 28 anni, per la Lituania di 72-96. Vale la pena un raffronto con i virtuosi (indicati dalla Corte): nelle Fiandre (Belgio) il periodo obbligatorio di ritorno nell’ambito dell’efficienza energetica è di massimo 10 anni, in Danimarca di 5. Quanto al programma lucano, tuona il rapporto, «non è stato possibile valutare in modo affidabile i benefici dei progetti relativi. Non è stata attuata alcuna valutazione energetica né sono stati raccolti dati di consumo energetico prima e dopo i progetti». 

Oltretutto, dei sette progetti che fanno parte dei due programmi italiani, solo uno (che riguarda l’Ospedale Cardarelli di Napoli) è stato completato. Siamo solo all’inizio: nell’ambito del programma Energy IOP, «la quantità dell’energia risparmiata e i costi sostenuti, e la relazione tra i due non era un fattore determinante per la selezione» dei progetti. Inoltre «in Italia, non sono stati stabiliti né il valore di riferimento del potenziale di risparmio energetico né la metodologia di misurazione». Peggio ancora, lamenta la Corte, «in Italia i progetti non sono stati preceduti da una valutazione energetica: al progetto beneficiario non veniva chiesto né di monitorare il consumo energetico prima della sua attuazione, né dopo il suo completamento». E la lista sarebbe ancora lunga.

La Corte ovviamente non può che fare un lungo elenco di raccomandazioni alla Commissione e agli Stati membri, che a dire il vero sembrano ovvie scontate: imporre l’obbligo di una valutazione del fabbisogno di risparmio, monitorare regolare con parametri chiari e univoci, stabilire criteri di selezione di progetti più trasparenti con l’indicazione di un tempo massimo per il ritorno dell’investimento. Ovvio e scontato, appunto, ma Bruxelles, curiosamente, non ci aveva pensato. E così centinaia di milioni di euro, che magari oggi, in tempi di crisi, farebbero molto comodo, sono spariti così tanto per rifare porte e finestre a qualche edificio pubblico, a spese dell’Ue.  

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