Argentina, provincia di Corrientes – Piove da una settimana a Mercedes. Nell’entroterra argentino, tra pascoli, mandrie di bestiame, gauchos e proprietari terrieri, l’acqua non ha smesso di venire giù. Sono giorni ormai che il fango aumenta e le persone, costrette a rimanere alla stazione degli autobus, sembrano preoccupate. «Sono tre giorni che piove, non sono ancora riuscita a raggiungere la croce» dice una signora mentre guarda il cielo sconsolata.
Tutti sono qui per la croce, la “cruz Gil” come viene chiamato il santuario del Gauchito Gil, santo popolare della cultura locale, che da più di un secolo raduna pellegrini, prima solo della zona e da una trentina di anni da tutta l’Argentina. Il suo colore è il rosso, altari a lui dedicati si possono trovare sparsi dalla Patagonia (la zona più a sud del paese e del mondo in generale) al nord argentino, e ogni otto del mese i suoi fedeli lo visitano porgendogli omaggi – sigarette, bottiglie di liquore, candele, rosari – e pregando nel suo nome. Ma a Mercedes, l’8 gennaio, è diverso. Perché si tratta del giorno in cui fu ucciso, e sebbene sulla vita del Gauchito esistano diverse leggende e interpretazioni, sulla data della sua morte non ci sono dubbi: 8 gennaio, di un anno imprecisato tra il 1840 e il 1890, forse il 1878.
La città, quel giorno e nei giorni precedenti, si trasforma da piccolo e caldo paesino vicino al Brasile e all’equatore in un’affollata città ricoperta di rosso. I fedeli sono ovunque, e con loro tutto ciò che accompagna avvenimenti di questa portata: commercianti, bandiere con il simbolo del gaucho più adorato della storia, intere famiglie che racchiudono in questi tre giorni le vacanze di un intero anno di fatica e lavoro, che hanno poco eppure comprano omaggi e doni per il loro santo. Per riuscire a vederlo e a visitare la sua tomba sono disposti a fare anche 17 ore di coda sotto il caldissimo sole estivo che contraddistingue questa provincia.
Solo che quest’anno è il 7 gennaio e non ha ancora smesso di piovere, nessuno rinuncia però. E c’è già chi rispolvera il vecchio mito secondo cui il giorno dell’anniversario del Gauchito non ha mai piovuto e mai pioverà. In lontananza si sente un tuono, in molti si rifugiano nel bar per bere una birra o un caffè. Altri ascoltano musica, Chamamé per la precisione – la musica popolare tipica della zona e la cui festa coincide con l’anniversario del Gauchito – altri restano semplicemente seduti a guardare la pioggia, ipnotizzati. Alle 3 di pomeriggio del 7 gennaio smette di piovere, e i giorni successivi sono benedetti da un sole incredibile e da un cielo turchese. La stazione già grida al miracolo, «Gracias Gauchito».
Lui, disertore, Robin Hood, bandito dal cuore d’oro. Protetto da un altro santo popolare più oscuro, San La Muerte, che secondo il credo diffuso rendeva quasi invincibile e con uno sguardo ipnotico colui sul quale vegliava. Per questo Antonio Mamerto Gil Núñez, o Antonio Gil, o Curuzú Gil come veniva chiamato, venne appeso per i piedi e gli venne tagliata la gola. «Aspetta – disse al boia – che la grazia sta arrivando», era vero, ma il boia non aspettò.
Era un’anima nobile il Gauchito, così si dice. Un uomo del popolo, nato a Mercedes agli inizi dell’800. Sulla sua vita si raccontano molte storie, che fosse un bracciante sfruttato che si ribellò al suo padrone o che andò a combattere nella Guerra del Paraguay agli ordini del Generale Madariaga. Secondo quanto racconta la signora Anabel Miraflores, sua madre, Estrella Díaz de Miraflores, donna facoltosa, avrebbe avuto una relazione con Gil e allo stesso tempo era molto corteggiata dal commissario di polizia: questa situazione, unita all’odio che i fratelli della signora avevano per il Gauchito, lo portò a fuggire dalla città (che al tempo si chiamava Pay Ubre) e a offrirsi volontario per la guerra del Paraguay. Ma poi non volle più uccidere i suoi fratelli e disertò. Un’altra versione racconta che fu reclutato dagli autonomisti (in rosso) per combattere i liberali (vestiti di azzurro) ma che poi si rifiutò di continuare a combattere contro i suoi stessi concittadini. Qualsiasi sia la vera storia, è certo che disertò e da quel momento cominciò ad aiutare i poveri distribuendo i guadagni ottenuti dai suoi furti (ai ricchi).
Un giorno però fu arrestato, appeso per i piedi e ucciso. Poco prima di morire disse al boia che, al suo ritorno a casa, avrebbe trovato il figlio malato che si sarebbe salvato solo se avesse pregato nel suo nome. Il boia non gli prestò attenzione, salvo poi tornare e trovare che le cose stavano proprio come aveva detto il Gauchito: pregò e il figlio si salvò. Fu allora che decise di tornare nel luogo dell’esecuzione per seppellire degnamente il corpo di Gil, luogo dove da quel momento sorge il santuario che ancora oggi è precario e povero, costruito dagli stessi fedeli e con alcune piccole donazioni anonime.
Il culto al Gauchito nel tempo ha assunto una forza tale che, sebbene non riconosciuto come santo dalla Chiesa, è riuscito a entrare nelle prediche dei sacerdoti della città. La messa dell’8 gennaio, che si celebra all’alba in suo onore con fedeli che esibiscono la croce rossa, raduna devoti, gauchos, cavalli e auto rosse. Ma non solo. Un prete nato e cresciuto nella zona, Julián Zini, Vicario Generale del Vescovato di Goya, ha persino composto una canzone – sulle note del Chamamé naturalmente – dal titolo “Antonio Gil”: «si, ha rubato, ha rubato al ricco per la giustizia del popolo: l’innocenza dei poveri si chiama necessità!» recita una delle strofe. Zini è un seguace della Teologia della Liberazione – una riflessione teologica cominciata in America Latina nel 1968 con il diffondersi dei molti regimi repressivi e che mira a una chiesa popolare e socialmente attiva -, diverse volte è stato ripreso dai suoi superiori ma continua a sostenere l’importanza della fede che il culto al Gauchito risveglia nelle persone. «Antonio Gil non è un santo né un beato, però la chiesa lo rispetta come defunto la cui anima è arrivata a Dio perché morto da innocente – afferma padre Zini – la sua croce è un culto della pietà popolare, è un’espressione della fede del nostro popolo».
E il popolo lo ama, questo è sicuro. Nei giorni che passano prima e dopo il pellegrinaggio le persone affollano l’unica strada che conduce a Mercedes – e dove appunto si trova il santuario – e montano tende di fortuna, ristoranti dell’ultimo minuto, griglie che cuociono carne a qualsiasi ora, feste, balli. Tutto con il caldo, il fango, la polvere, gli odori forti e la stanchezza. La città rimane priva di quasiasi provvista dato che i camion restano bloccati sulla strada. E suonano il clacson, continuamente. Non tanto per far spostare le persone – sarebbe impossibile – quanto per salutare il Gauchito, protettore dei viaggiatori. E così via, in un crescendo di vita che ha il suo picco nell’8 gennaio. Poi, quasi all’improvviso, tutto svanisce. Al santuario si entra facilmente, non c’è più la fila chilometrica dei giorni precedenti, le ultime tende da campeggio vengono ritirate, i pullman ora riescono a passare senza problemi. La stazione si svuota un po’ alla volta e cominciano a sparire anche i banchetti di gadget e di prodotti tipici locali, con offerte vantaggiose su formaggi e salumi. I fedeli rimasti si affrettano e approfittano per pregare un’ultima volta in nome del loro santo. Un po’ alla volta il campo torna a essere un pascolo qualsiasi, o quasi. Il santuario resta lì, pieno di candele rosse e offerte. E i clacson dei viaggiatori si continuano a sentire.