Finita l’indipendenza delle banche centrali, ora si va alla guerra monetaria

Finita l’indipendenza delle banche centrali, ora si va alla guerra monetaria

Nel mondo si sta per combattere una guerra silenziosa. Per ora siamo solo alle schermaglie iniziali, ma ben presto dalle parole si passerà ai fatti. Si tratta della guerra valutaria. Fra dollaro statunitense, yen giapponese ed euro, la moneta che rischia di essere la più penalizzata è proprio quest’ultima. Con la decisione della Bank of Japan di innalzare il target dell’inflazione dall’1 al 2%, le banche centrali sono entrate in una nuova era.

«La Bank of Japan ha cambiato le carte in tavola». Così ha commentato Goldman Sachs dopo le ultime decisioni di politica monetaria del Giappone, arrivate dopo l’insediamento del governo di Shinzo Abe. In effetti, le nuove misure sono state tanto improvvise quanto radicali: innalzamento del tasso d’inflazione atteso, passato al 2% dal precedente 1%, e acquisto aperto di asset a partire del 2014. E su quest’ultimo versante, la scelta è stata quella più aggressiva, ovvero 13.000 miliardi di yen (circa 145 miliardi di dollari) in asset, di cui 2.000 miliardi di yen in bond governativi. L’obiettivo è combattere la deflazione, dice il governo. E la reazione di Masaaki Shirakawa, governatore della BoJ, non si è fatta attendere. Alle accuse di politicizzazione delle decisioni monetarie, Shirakawa ha risposto che le azioni della banca centrale rientrano nella cooperazione con il governo per sconfiggere lo scenario di deflazione che si presentava di fronte al Giappone. Nei fatti, il Giappone ha deciso di manipolare lo yen. E ora si attendono le mosse delle altre istituzioni monetarie.

I banchieri centrali, che stanno assumendo più un ruolo politico che altro, sono in disaccordo fra loro. Secondo il futuro governatore della Bank of England, Mark Carney, non ci sono segni di una guerra fra valute all’orizzonte. Anzi. «È compito di tutte le singole banche centrali cercare di mantenere stabili le aspettative economiche per l’area di loro competenza, senza peraltro danneggiare le altre», ha detto Carney. Del resto, il ragionamento è semplice: se una banca centrale decide di svalutare la moneta all’interno della propria area di competenza, deve anche stare attenta a non urtare i legami con le zone circostanti. Una svalutazione troppo eccessiva, disse Carney nel 2008, rischia di produrre gli effetti opposti a quelli sperati. Da un lato si potrà anche rilanciare l’economia interna nel breve periodo, ma dall’altro questa soffrirà nel lungo, dato che molti rapporti commerciali potranno essere influenzati dalla nuova strategia, capace di innescare le battaglie fra le monete.

L’universo in cui si stanno muovendo le principali banche centrali mondiali dal 2008 a oggi è quello della Zero interest rate policy (Zirp). In altre parole, tassi d’interesse ridotti al minimo storico nel tentativo di stimolare l’economia. Se in alcune occasioni, come negli Stati Uniti, questo è servito per far riprendere i consumi, in altre ha creato distorsioni dei mercati talmente gravi che si è messa in dubbio l’efficacia del meccanismo di trasmissione della politica monetaria da parte della banca centrale stessa, come nel caso della Bce.

In quest’ottica, squilibri fra valute e Zirp, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha lanciato l’allarme nei giorni scorsi. «Il rischio è quello di una guerra valutaria», ha detto dalle colonne del Financial Times. Parole che sono state riprese anche dal cancelliere tedesco Angela Merkel, che dal World economic forum di Davos ha detto di essere moderatamente preoccupata dalle scelte monetarie del Giappone. Non poteva essere altrimenti, dato la vicinanza di idee fra Weidmann e la Merkel. È però il segnale di un fenomeno che sta avvenendo con sempre più velocità.

La guerra valutaria che verrà, ma che per molti versi già esiste, è nata per via delle lacune della politica. Come ha ben argomentato sul Financial Times il capo-economista di Hsbc, Stephen King, è finita l’era dell’indipendenza delle banche centrali mondiali. Le ragioni sono diverse. La prima, più evidente, è la situazione di estrema emergenza in cui si sono trovati i governi dopo il fallimento di Lehman Brothers, la quarta banca statunitense. Di fronte alla possibilità di un collasso del sistema finanziario, possibile a causa dell’incredibile ramificazione dello stesso, i governi hanno chiesto uno sforzo mai domandato prima alle proprie istituzioni monetarie. Hanno chiesto di fare di più, di guardare anche alla terza faccia della medaglia, quella degli interventi straordinari. Così è stato fatto e solo così si è riuscito ad arginare l’emergenza legata al collasso del mercato immobiliare.

Il secondo motivo è legato alla crescente competizione fra i Paesi. Le aree emergenti sono sempre più aggressive, mentre quelle sviluppate stanno sperimentando un rallentamento strutturale del proprio modello di sviluppo. Già due anni fa il ministro brasiliano delle Finanze, Guido Mantega, aveva messo in guardia le economie avanzate da un possibile conflitto valutario. «Le banche centrali sono entrate in un nuovo mondo, in cui sono tutti contro tutti: è una guerra senza confini in cui non ci sarà alcun vincitore», affermò parlando dal World economic forum. Aveva ragione.

Nonostante le evidenze, c’è chi ritiene che l’ipotesi di una guerra monetaria sia «esagerata». È il caso del capo-economista del Fondo monetario internazionale (Fmi) Olivier Blanchard. A margine della presentazione dell’ultima revisione del World economic outlook, Blanchard ha spiegato che sembrano esserci i presupposti per un tal scenario. Quello che è certo è che è in atto un ribilanciamento dell’economia globale, che obbligherà governi e banche centrali a sperimentare nuove strategie per contrastare il rallentamento delle aree avanzate. E non è detto che queste siano le più adatte.  

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