Ho visto per la prima volta Gianni Agnelli nel remoto 1940 quando era il principe ereditario, orfano di padre allevato dal senatore Giovanni Agnelli, suo nonno, il fondatore della stirpe. L’ho visto nell’Università di via Po a Torino, facoltà di Giurisprudenza, nell’aula degli esami di diritto civile del professore Allara, un ometto gracile, bilioso, più sadico che severo, che affidava la sua imperitura fama di giurista a questa geniale definizione della proprietà privata: essa è ciò che non è soggetto ai diritti altrui. Che a me sembrava una complicazione del più semplice: essa è quello che è tuo.
Ero già stato bocciato una volta dal professore e attendevo di essere chiamato alla seconda esecuzione, ma prima della B c’è la A e prima delle A normali c’è la A di Agnelli Giovanni. Ci fu un tramestio di assistenti, uno scambio di registri, un’agitazione degli uscieri e improvvisamente il principe ereditario, un bel giovane preraffaellita entrò nell’aula accompagnato dal suo istitutore. Più che un esame sembrò a noi provinciali una confessione senza confessionale, Allara faceva le sue domande sottovoce, veloci come se volesse liberarsi al più presto di una pendenza assai imbarazzante nella Torino di allora, e il giovane erede rispondeva sottovoce.
Venne sistemato in pochi minuti e uscì dall’aula accompagnato da noi curiosi, ma non ci fu modo di fermarlo, lo attendeva in via Po, in sosta vietata a tutti meno che a lui, una Fiat con autista in divisa. Molti anni dopo, in una conversazione fra settuagenari, mi avrebbe confidato che quel suo istitutore era di Cuneo, della mia città, che gli era rimasta nel cuore per i cuneesi al rum della confetteria Arione, allora in piazza Vittorio ora Galimberti. La seconda volta, mi pare, fu nel primo dopoguerra. Gianni era tornato a Torino dal suo servizio militare, che nella tradizione familiare e piemontese non aveva cercato di evitare perché «i bei fieui va fè el suldà e i macacu restu a cà»: in cavalleria come il nonno, prima in Russia poi in Nordafrica.
Valletta, l’uomo che aveva diretto la Fiat negli anni dell’occupazione nazista, aveva un altissimo senso dinastico, come del resto tutti a Torino, ma scomparso il senatore non voleva fra i piedi il giovane rampollo. Che si divertisse e lasciasse fare. C’era allora alla Gazzetta del Popolo, dove lavoravo, un disegnatore marchigiano, allievo di Garretto, di nome Checco Acqualagna, che spendeva tutti i suoi soldi in abiti, cravatte e mazze da golf per passare i weekend con l’haute torinese. E di haute ce n’era una sola, quella che gravitava attorno a Gianni di cui Checco mi teneva informato, magari inventando un po’: aveva sedotto una parente di Churchill, aveva orinato su una roulette di Montecarlo, Maner Lualdi l’aviatore dei due mondi gli organizzava feste su cui la polizia vegliava, aveva sfasciato un’auto e una sua gamba in una corsa notturna sulla Costa Azzurra. E con quella gamba malconcia lo rividi al Sestriere alla partenza della Rionero, una pista che scendeva a Sauze d’Oulx, una «nera» precipite.
Stava al centro dei suoi scudieri, eredi dalla nobiltà savoiarda che avevo conosciuto ai littoriali dello sci e che mi avevano permesso di avvicinarlo. La gamba era fasciata da uno strano ma elegante rinforzo in cuoio nero con fibbie e cinghie, ricordava un Aramis e sciava un po’ come il suo maestro Noble, nessuno comunque si permetteva di superarlo. Il salone dell’automobile fu il luogo della sua prima investitura: su tutti i giornali apparve una fotografia in cui era inginocchiato fra Valletta e Pirelli davanti a una Cinquecento. Salì al trono per la celebrazione del patrio centenario e in quell’occasione ci fu il nostro primo incontro.
Avevo pubblicato per Laterza un volumetto, I giovani leoni del neocapitalismo, e il suo nuovo istitutore in rapporti sociali e culturali Vittorino Chiusano mi combinò l’intervista nella direzione di corso Marconi. Come tutti i piemontesi ero un fervente monarchico della nuova dinastia. Mi presentai in portineria, dove c’erano una decina di impiegati dietro i cristalli blindati: «Desidera?». Mi tremava un po’ la voce, dissi: «Ho un appuntamento con l’avvocato Agnelli». Tremava un po’ la voce anche all’impiegata quando telefonò al piano più alto per sapere se era proprio vero. L’intervista fu rapida: avevo fatto avere a Chiusano le domande scritte e lui aveva preparato le risposte scritte che il sovrano mi consegnò in un’elegante busta. Non si parlò del neocapitalismo, l’Avvocato congedandomi mi chiese: «Lei è di Cuneo città?». «Sì». «Mi tolga una curiosità: c’è ancora la confetteria Arione, ci andavo quando ero studente. Ci sono ancora quei dolci squisiti?». «I cuneesi al rum?». «Già quelli». Scesi in portineria e già da lì vidi che la mia auto non c’era più in corso Marconi, asportata dai vigili per sosta vietata. La signorina della portineria fece una faccia stupita e un po’ sdegnata: come si erano permessi? Una telefonata e entro cinque minuti l’auto era di ritorno con le scuse del capo dei vigili.
Dopo lo rividi una decina di volte, non sempre in occasioni felici. Non era di buonumore quando in una delle sue cicliche crisi la Fiat licenziò i colletti bianchi, quelli della marcia dei quarantamila, gli impiegati. Fu una scena che ricordava in qualche modo la corazzata Potëmkin e la famosa scalinata. Stavamo davanti all’ingresso di Mirafiori in attesa che uscissero i licenziati, venuti alla direzione per scongiurare l’amara e irriconoscente punizione. Passarono due ore, finalmente la porta si aprì e uscirono i primi cacciati dall’Eden, c’era anche una signora, una madamin sui quaranta anni. Le scappò una scarpetta con il tacco alto che rotolò giù per gli scalini, nessuno si mosse per aiutarla, venne giù a saltelli e se ne andò ritrovando dignità e self control.
Gli ultimi incontri furono informali, da coetanei piemontesi quasi affettuosi. La sera che presentai un mio libro a palazzo Barolo venne con un regalo, la collezione rara di un giornale risorgimentale. Eravamo un po’ stufi di parlare di automobili, del sorpasso comunista, del finanziamento Gheddafi, preferivamo parlare della guerra a cui eravamo scampati e della gioventù. «Sa», mi ripeteva, «ci si trova veramente a proprio agio solo con quelli della nostra età, si evita la fatica di spiegare come stavano le cose a chi non ha nessuna voglia di saperle». Di lui si potrebbe dire: «cursus consumavi, fidem servavi», ma quale fede poteva ancora esserci in un uomo passato per molte sciagure familiari e per tanti e tempestosi mutamenti? La fede molto piemontese nella continuità delle istituzioni, compresa quella della sua dinastia e della grande fabbrica, che poteva al mattino vedere dalla sua villa sulla collina nella piana verso Stupinigi, verso Villar Perosa, verso le Alpi.
da La Repubblica del 25 gennaio 2003
24 Gennaio 2013