I porti italiani sono i grandi assenti del Mediterraneo

I porti italiani sono i grandi assenti del Mediterraneo

“Non è il viaggio che conta, ma il porto”, dice un proverbio campano. E infatti oggi le navi che partono dalla “fabbrica mondo” cinese preferiscono attraccare a Valencia o Rotterdam – anche se la rotta è più lunga e costosa – piuttosto che sbarcare in Italia. Perché? Guerre di campanile, sovrapposizioni tra gli operatori, lacci e lacciuoli, infrastrutture obsolete e una normativa bizantina sono gli elementi che hanno causato la costante perdita di quote di mercato di un Paese con 9mila km di coste, al centro del Mediterraneo. Nella top ten dei porti che si affacciano sul Mare Nostrum, Valencia, Algeciras, Port Said, Barcellona e Atene sono cresciuti nel 2011, mentre Gioia Tauro ha perso terreno (-19,2%) come Venezia (-13%) Genova (-0,6%) è rimasta invariata. 

L’economia del mare genera un fatturato complessivo (dati Srm – Intesa Sanpaolo riferiti al 2010) di 39,5 miliardi di euro – il 2,6% del Pil nazionale – occupa 500mila persone ed è il principale mezzo per spedire il made in Italy in tutto il mondo. Il valore dell’interscambio marittimo dell’Italia, invece, nel 2011 ha superato i 242 miliardi di euro, il 15,3% del Pil. Rispetto alla pesca, alle crociere e all’attività da diporto, le merci fanno la parte del leone: i ricavi dei servizi di trasporto e ausiliari valgono 18 miliardi, la metà del totale.Il Censis ha stimato che nel 2009 (ultimi dati disponibili) «ogni 100 euro di investimenti/servizi effettuati nel comparto ha attivato 237 euro di reddito complessivo nel sistema economico nazionale», e che «100 nuove unità operanti nel cluster marittimo attivano 173 nuovi posti di lavoro nel sistema produttivo generale». Cifre che non interessano alla politica. Tant’è che, stando al Global competitiveness report del World economic forum, l’Italia è all’80mo posto, dietro a Ungheria, Zambia e Benin. Luca Antonellini, ingegnere che lavora per l’Autorità portuale di Ravenna, ha calcolato che, nel 2008, i porti italiani ci avrebbero messo 102 anni – attraverso tasse e diritti portuali e canoni di concessione – a ripagare i 2,25 miliardi di euro stanziati dal ministero dei Trasporti dal ’98 a oggi. Un orizzonte troppo lungo per qualsiasi investitore. 

La legge 84 del 1994 affida la gestione dei porti di interesse nazionale a 23 Autorità portuali – con funzione di indirizzo, programmazione e controllo – che dipendono dal ministero dei Trasporti (e alle Capitanerie, coordinate dal ministero della Difesa). Enti che decidono i piani portuali senza autonomia di spesa, e con una governance barocca: il presidente è nominato dal dicastero di via Veneto su indicazione degli enti locali e l’ok della Regione, mentre il segretario generale è espresso dal comitato portuale, parlamentino dove siedono sia i rappresentanti degli enti locali e della camera di commercio, sia degli operatori (armatori, industriali, spedizionieri, terminalisti agenti accomandatari, etc.). 

Poltrone da spartire con la logica del manuale Cencelli, mentre le risorse generate dal territorio finiscono a Roma nel calderone, per poi essere rigirate ai porti senza alcun meccanismo premiante. Per dare un termine di paragone, il programma di sviluppo infrastrutturale 2010-2014 del governo algerino prevede un impegno finanziario di 286 miliardi di dollari. L’anno scorso, invece, ai porti italiani sono andati 70 milioni di euro. Ovvero il tetto fissato per le risorse da redistribuire con l’1% dell’Iva destinato agli scali marittimi. Con il Piano per la logistica 2012-2020, il governo Monti aveva provato a mettere ordine fissando un obiettivo che vale tra i 2 e i 4 miliardi di euro: attrarre almeno il 50% dei container destinati all’Europa centrale. 

Come? Semplificazione delle dogane, uffici aperti h24, finanza di progetto, e una governance snella. Andrea Boitani, economista dei trasporti alla Cattolica di Milano e consulente del governo per il Piano per la logistica, mette il dito nella piaga: «In Italia la programmazione portuale è delle Regioni, ma i soldi li mette lo Stato, e ciò rende il sistema inefficiente. È necessario programmare, con una legge obiettivo le risorse per infrastrutturarli. Si tratta di investire 2-3 miliardi di euro in 5 anni, meno della metà dei 6,5 miliardi stanziati dall’esperimento fallimentare del  fondo nazionale trasporti».

Quella dello sportello unico delle Dogane non solo è immediatamente realizzabile, ma a costo praticamente zero. È l’ossessione di Piero Lazzeri, presidente di Fedespedi (federazione nazionale degli spedizionieri): «Sappiamo che le dogane stanno facendo in Italia grandi tentativi di mettere a fattor comune le competenze di quattro diversi ministeri (trasporti, sanità, economia e commercio estero, ndr) per arrivare allo sportello unico, ma noi insistiamo con forza perché le lungaggini burocratiche ci fanno perdere i dazi dei container che preferiscono attraccare nei porti del Nord Europa». «Oggi si possono effettuare 18 controlli diversi sulla stessa merceologia, ciò significa che 3-4 soggetti hanno diritto a controllare le merci senza riconoscere autorità dell’altro. E il personale doganale non lavora h24», lamenta Lazzeri, convinto che «le imprese manifatturiere pagherebbero anche 20 euro in più a container per risparmiare tempo». Ad esempio, per sdoganare un container proveniente dalla Cina occorrono 70 documenti, 17 controlli, 3 ministeri coinvolti e una settimana di tempo. A Rotterdam ci mettono 48 ore al massimo. 

Il Senato era riuscito faticoscamente a dare il via libera ad un testo di riforma lo scorso settembre, ma poi è caduto il governo. Nessuno, però, sembra strapparsi le vesti. Anche perché, con un bliz, notturno Palazzo Madama aveva aggiunto due nuove autorità portuali, quella di Taranto e di Manfredonia, poi rimasta. «Siamo l’unica associazione di categoria ad aver bocciato l’aumento della propria base associativa», spiega a Linkiesta Luigi Merlo, presidente di Assoporti e dell’Autorità portuale di Genova, che osserva rassegnato: «Il cluster del mare non interessa a nessuno, e la testimonianza più eclatante è che, in 10 anni, l’unico provvedimento sul settore è il decreto pubblicato in questi giorni, che attualizza dal ‘93 a oggi le tasse portuali e di ancoraggio, con un aggiornamento Istat che si traduce in rincari del 50%, il tutto mentre i porti europei, per far fronte alla crisi, abbassano i prezzi». 

«La verità», nota Merlo, «è che manca una cultura dell’economia marittima. Il ministero del Tesoro ha sempre identificato i porti come rischio, non ha messo in campo risorse con il paradosso del plafond all’1% dell’Iva a 70 milioni di euro invece che i 130 che ci spettavano (i porti hanno generato 1,3 miliardi di Iva e accise nel 2011, ndr). Noi chiedevamo il 5%, pari a 2 miliardi di euro con i quali avremmo finanziato le grandi opere necessarie». Infine, per Merlo è necessario cambiare la natura giuridica delle autorità portuali, per «trasformarle in Spa pubbliche o enti pubblici economici, non è possibile che Rotterdam e Anversa cerchino di sviluppare i traffici e noi non abbiamo i soldi per entrare nel capitale dei retroporti». 

Ecco perché Paolo Costa, numero uno dell’Autorità portuale di Venezia, che è riuscito a “dirottare” 100 milioni di euro inizialmente stanziati per il Mose sul progetto lagunare del terminal d’altura, ha fatto arrabbiare tutti. Lo stesso Merlo dice: «Le norme devono essere uguali per tutti, o c’è autonomia finanziaria o le eccezioni non sono ammissibili». Dal canto suo, Costa ribatte: «Quei fondi sono stati decisi nel 2003! Sono io a lamentarmi, me li hanno dati soltanto adesso!». E argomenta: «Nell’interesse generale la difesa del bene culturale Venezia presuppone l’esistenza di attività produttive. E poi di cosa stiamo parlando? Ravenna ha preso i soldi stanziati dal Cipe per la tramvia di Parma, Genova ha 4 miliardi per il terzo valico, per Civitavecchia sono arrivati 230 milioni la scorsa settimana…». Per focalizzare il problema della portualità nazionale Costa cita Kissinger: «Chi devo chiamare per parlare con il porto?»

In un report dello scorso aprile, Unicredit spiega bene la situazione italiana: 

«La principale criticità di un progetto infrastrutturale in ambito portuale riguarda proprio il difficile coordinamento tra i vari livelli decisionali della Pa […]. In particolare, con la modifica del Titolo V della Costituzione italiana i porti sono divenuti oggetto di legislazione concorrente e, dunque, di competenza regionale. Tale circostanza fa si che nella redazione dei piani portuali si ponga l’accento, non più sulla singola opera, ma sul complesso sistema di infrastrutture, anche stradali e ferroviarie, che permettono di accrescere la competitività di uno scalo nell’ambito di un più ampio contesto territoriale. Per la realizzazione di un’opera risulta, pertanto, fondamentale il rapporto che si instaura tra l’Autorità Portuale di riferimento e la Regione in cui è localizzato lo scalo».

Proprio Unicredit, assieme al colosso danese Maersk, nel 2010 si era impegnata a finanziare con 1 miliardo di euroil “superporto di Monfalcone”. In sintesi: Trieste ha i fondali profondi per far attraccare navi di grandi dimensioni, ma non i collegamenti ferroviari. Monfalcone viceversa. Morale? Lo Stato avrebbe dovuto dragare i fondali di Monfalcone, mentre la banca realizzare l’infrastruttura in project financing assieme al colosso danese. Venezia e Trieste si mettono di traverso per paura di perdere traffico container, e alla fine – dopo una presentazione in pompa magna a Palazzo Chigi – il progetto viene messo in congelatore. Maurizio Maresca, ex presidente dell’Autorità portuale di Trieste ed ex vicepresidente di Unicredit Logistic, che ha gestito il dossier in prima persona, osserva: «La mia sensazione è che le banche stiano abbandonando questi progetti. È molto difficile che Unicredit stanzi di nuovo un miliardo di euro per un’infrastruttura strategica come doveva essere il superporto di Monfalcone. Oggi chi è in grado di sobbarcarsi il rischio legato a operazioni di questo, tipo sono i fondi sovrani o la Cassa depositi e prestiti, i pool di banche possono al massimo impegnarsi per decine di milioni di euro».

Meglio così, dice a Linkiesta Sergio Bologna, uno dei massimi esperti di economia del mare in Italia, che individua un grande equivoco di fondo: «Oggi tutti programmano investimenti per scavare i fondali e consentire alle grandi navi di ormeggiare, ma l’unico porto italiano con un hinterland in grado di riempire regolarmente navi sopra i 12mila Teu ((twenty-foot equivalent unit, unità di misura che indica la capacità di un container lungo 6,1 metri e largo 2,44, ndr) è Genova, data la sua vicinanza con Lombardia e Piemonte». 

Una visione condivisa da Paolo D’Amico, presidente di Confitarma (la lobby degli armatori): «Ciò che manca all’Italia è un ministero del mare. Ci vuole un’autorità politica che coordini gli interventi in finanza di progetto. Avevo 10 anni quando ho sentito parlare per la prima volta del terzo valico di Genova, oggi ne ho 58. Attualmente soltanto tre banchine possono accogliere navi da 18mila Teu: una a Genova e due a Gioia Tauro. Il resto dei porti me li immagino come scali feeder (nave da 50 a 500 Teu, che collega i porti non serviti dalle linee servite dai grandi armatori ndr)». 

Navi più grandi, con stive più capienti, hanno determinato un abbassamento delle rate di nolo (il prezzo del trasporto, ndr) – il Baltic dry index, indice che misura l’andamento dei noli dei carichi secchi (non petrolio e prodotti chimici) in un anno ha perso circa il 28% – e dunque della redditività delle compagnie. Che hanno iniziato a razionalizzare, sia gestendo i terminal in proprio, sia utilizzando meno il personale del porto per le operazioni di carico e scarico. Risultato? I terminalisti privati, a cui sono state affidate in concessione le banchine con ampi margini sulle tariffe – un esempio-limite è l’affitto di 296 euro per 90 anni che l’Autorità portuale di Trieste fa pagare al Gruppo Maneschi per la gestione di 37mila metri quadri nell’area del Porto Vecchio – temono che la propria rendita di posizione venga intaccata, i lavoratori temono di rimanere a casa. E incrociano le braccia: soltanto tra novembre e dicembre scorso hanno scioperato i lavoratori del porto di Palermo, Termini Imerese, Genova, Savona, Livorno. 

Uno studio dell’Isfort (Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti, controllato dalla fondazione Bnc), pubblicato lo scorso luglio e intitolato non a caso “Far West Italia”, stima in media 3,1 giorni indennizzati per ogni giorno lavorato. Troppo. È successo a Genova, Savona, Livorno: i lavoratori incrociano le braccia e chiedono investimenti per non rimanere a casa, ma i soldi non ci sono. «La preoccupazione è elevata perché abbiamo grandi realtà produttive, come Gioia Tauro, dove la questione principale riguarda la prospettiva industriale», dice Franco Nasso, segretario generale della Filt Cgil, che rivendica: «A Gioia Tauro non ci siamo mai sottratti al confronto sulla produttività, abbiamo utilizzato la cassa integrazione, la flessibilità, che altro ci dovevamo mettere? Il rischio della frantumazione contrattuale in atto è di disperdere parte del lavoro sul contratto e sulla regolazione unica, messo in discussione sia dall’autoproduzione delle compagnie, sia dai vari appalti e subappalti». 

Proprio a Gioia Tauro, lo scorso settembre, i lavoratori hanno bocciato un accordo(la Cgil si era spesa per il sì) che legava la retribuzione alla produttività, e quindi al merito. Sesto porto del Mediterraneo per Teu movimentati e principale scalo di transhipment (trasbordo del carico da una nave all’altra, ndr) del Paese, il porto calabrese ha scontato, a maggio 2011, l’addio del colosso danese Maersk, primo operatore merci al mondo, che gli ha preferito Malta. Contattata da Linkiesta per un commento in merito, Maersk ha declinato l’invito, ma ha accettato di commentare, in generale, le criticità del sistema italiano: «Pensiamo che ciò che manca oggi al Paese è la capacità di fare sistema, di mettere in rete in maniera coerente ed efficiente tutti gli attori della filiera, dai porti alle dogane, dalle ferrovie alle autorità sanitarie. Una visione sistemica da un lato e un efficiente rete infrsastutturale, soprattutto su ferro, dall’altro rappresentano gli elementi più rilevanti per attirare le navi e i carichi e ampliare l’hinterland dei porti anche oltre confine».

«Il voto negativo dei sindacati non ferma la cassa integrazione e il piano di ristrutturazione», dice Salvatore Silvestri, segretario generale dell’Autorità portuale di Gioia Tauro, che sul porto osserva: «Da un lato non produciamo Iva e anche il fondo perequativo nazionale è miserrimo, dall’altro abbiamo il vantaggio di avere un’infrastruttura all’avanguardia». Anche Silvestri, come i suoi colleghi, lamenta la scarsa autonomia delle autorità portuali, con un esempio: «C’è una direttiva europea che consente di abbattere le accise sui carburanti per le infrastrutture al di fuori dei circuiti stradali, ma l’Italia non l’ha mai recepita. Così ad Amburgo mille litri di carburante costano 200 euro in meno che a Gioia Tauro. Noi ci autofinanziamo con le tasse di ancoraggio, ma abbiamo dovuto sospendere da 3 anni il rinnovo del personale dell’autorità perché dobbiamo attingere dalle risorse dalla gestione ordinaria». Niente risorse e troppa burocrazia: così muoiono i porti italiani. 

(ha collaborato Andrea Moizo)

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